di Luca Fumagalli
«Sin dall’infanzia, Robert Louis Stevenson per me ha incarnato la felicità»
(Jorge Luis Borges)
Long John Silver è semplicemente un mito, uno dei personaggi più riusciti di sempre. Il merito va tutto a Robert Louis Stevenson (1850-1894) che, nel celeberrimo romanzo L’isola del tesoro, ha saputo creare un antagonista per nulla macchiettistico, capace di riassumere nella sua magnetica personalità quel dramma lacerante che è la condizione dell’uomo, perennemente in bilico tra la miseria e la grandezza.
La sua andatura claudicante, lo sguardo rude e la furbizia contribuiscono a completare il quadro di una figura tanto inquietante quanto attraente. Sulle prime potrebbe sembrare un marinaio qualsiasi, ma quando il giovane Jim Hawkins, il protagonista del libro, si imbatte in lui, ne rimane letteralmente folgorato. L’uomo, con il suo inseparabile pappagallo, è infatti un esperto lupo di mare, e le sue maniere gentili, accompagnate da una certa galanteria, lo elevano al di sopra degli abituali frequentatori di bettole e dei bevitori di grog. Peccato, però, che dietro la patina rassicurante si nasconda uno dei peggiori farabutti che abbia mai solcato i sette mari, un pirata furbo, accorto, violento, iracondo e spregiudicato.
Ma ciò che più sconcerta è che anche dopo il tradimento nei confronti di Jim e dei suoi amici – il cavaliere Trelawney e il dottor Livesey – il carisma di Silver non viene meno. Rappresenta tutto quanto vi è di negativo e spregevole, eppure non smette mai veramente di affascinare i protagonisti. Solo il capitano Smollet, che unisce la rudezza del disciplinatore allo sguardo acuto di chi è abituato a badare ai fatti, ne intuisce sin da subito il pericolo.
La grande avventura che gli eroi si trovano ad affrontare è, prima di tutto, una sfida con loro stessi e poi contro quelle tentazioni che Silver ben incarna. La storia di Jim non è solamente la battaglia che l’adolescente combatte sulla via della maturità, è la sfida che ogni uomo è chiamato a fronteggiare quotidianamente. Il primo pericolo insito nel male è la sua facilità, ma si tratta solo di un’esca per gli stolti e il premio per chi lo persegue, nella finzione letteraria come nella vita, è la sconfitta, la stessa a cui sono destinati i pirati che “vivono alla giornata”, incapaci di progettare alcunché di stabile e durevole. Nei loro occhi, gravati da un’ombra di slealtà e da una punta di derisione, si intravede la scelta di chi ha deciso di abbandonarsi al cinismo e al disincanto di un’esistenza fondamentalmente priva di un senso, tutta bevute e oro.
Solo affrontando Silver, il suo doppio malevolo, Jim potrà finalmente ritornare a casa sano e salvo, ricco non tanto di denaro, quanto della conquista di un nuovo sguardo, una prospettiva esistenziale che Ben Gunn, il selvaggio abitante dell’isola, definirebbe, più che umana, cristiana.
Per quanto L’isola del tesoro sia un perfetto distillato di tutto quanto vi è di buono e di bello nell’opera di Stevenson, si tratta solamente di uno dei tanti romanzi di un autore che ha firmato almeno un altro classico della letteratura come Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (un viaggio inquietante negli abissi dell’anima e una messa in guardia contro i pericoli di chi fa della scienza un’ideologia).
L’inglese, la cui vita fu segnata dalla sofferenza e dalla malattia, fu uno scrittore brillante e suggestivo, in grado di far sognare il lettore come pochi altri, tant’è che durante il periodo che trascorse a Samoa i nativi che ascoltavano i suoi racconti lo soprannominarono Tusitala, che significa “il narratore di belle storie”. I suoi personaggi sono uomini che viaggiano, uomini – come lui – dal cuore agostinianamente inquieto, perennemente in lotta contro il proprio egoismo e contro il prepotente di turno. Del resto la passione civile che ne segnò sia i libri che l’esistenza non nasceva da velleitarismi politici, ma da una profonda attenzione e compassione per il prossimo, medesimi sentimenti che è possibile rintracciare nella sua appassionata difesa di Padre Damiano de Veuster, un missionario belga che morì alle Hawaii servendo in un lebbrosario e che fu vittima delle maldicenze dei protestanti. Dunque la sua arte ebbe sempre un fine educativo, non fu mai mero divertimento. Come ebbe a dire Stevenson stesso: «Non vi è nessun libro veramente buono che non sia veramente morale».
A questo grande esploratore dello spirito è dedicato l’ultimo saggio di Paolo Gulisano, medico e scrittore, intitolato Robert Louis Stevenson. L’avventura nel cuore. Si tratta di un volume singolarmente godibile, agile e ben confezionato, che conduce chi legge in un meraviglioso viaggio alla scoperta della vita e dei capolavori dell’inglese. La sua penna – riprendendo il giudizio di Chesterton – seppe davvero dar corpo a una “letteratura della gioia”, ovvero a una letteratura in grado di trasmettere non solo le angosce esistenziali dell’uomo moderno, le sue domande a volte disperate di significato, ma anche le risposte, quella positività che è dentro l’esperienza umana e che può aiutare ad essere felici.
Per questo e per molto altro ancora i libri di Stevenson meritano di essere letti, riletti e meditati.
Il libro: Paolo Gulisano, Robert Louis Stevenson. L’avventura nel cuore, Edizioni Ares, Milano, 2022, pp. 232, Euro 18.