Dal capolavoro Il Governo di sé stesso. Le grandi leggi psicologiche (saggio di psicologia pratica) di padre Antonino Eymieu questi eccellenti e preziosi consigli per governare la propria mente. Altro che “mindfulness”!
«Le cattive letture mi hanno trascinato qui! Tutti i direttori e cappellani delle prigioni, tutti i magistrati hanno raccolto confessioni di questo genere» [1]. Di fronte a un delitto o a un suicidio, «per indagarne la causa, non basta dire: cercate la femmina, spesso bisogna anche cercare il libro» [2]. «I libri sono i più insigni benefattori o malfattori dell’umanità» [3].
I «romanzi buoni» infatti son quelli che, dipingendo la passione in lotta col dovere e la virtù di fronte alla tentazione, si propongono di far trionfare la virtù. Mediante quali mezzi garantiscono la vittoria? Sopprimendo le tentazioni o il tentatore al momento opportuno, oppure fornendo all’eroe una copiosa provvista di eroismo. Ora nulla di più facile sulla carta: ma nella realtà vissuta se tratto da quegli esempi dal felice esito, il giovane, la giovane vuol tentare sul proprio cuore le medesime esperienze, il caso non sarà forse altrettanto compiacente né il cuore così agevolmente eroico. Per fronteggiare il pericolo non basta che il romanziere si preoccupi di bruciare di quando in quando, in onore della virtù, il pallido incenso di pochi sillogismi. Il fumo dell’incenso evapora al primo voltar di pagina, e le immagini perturbanti rimangono, accompagnando l’eroe nelle complessità della vita; ne risulta un’idea incarnata, ricca, complessa, che costituisce senza difficoltà un valido contrappeso a tutti i sillogismi e pesa gravemente sulle ali dell’anima. Affinché un «buon romanzo» sia realmente buono nella pratica, per un determinato lettore, non basta che la sua tesi sia irreprensibile, ma occorre anche che lasci nel lettore una sana impressione.
[…] L’unico vantaggio che possa offrirci, a cose fatte, la fantasticheria è quello di farci conoscere il difetto dominante. Se ordinariamente essa ci conduce a visioni di orgoglio, noi siamo orgogliosi; se a visioni di sensualità, noi siamo sensuali, e così via.
La fantasticheria sminuzza l’intelligenza e ne rompe l’equilibrio disavvezzandola dall’attività normale: la deprime e la falsa, lasciando che si compiaccia in fantasmi fatui ed assurdi, mentre segno autentico di ogni intelligenza forte o anche colta è il gusto, il bisogno della verità e della precisione. Il carattere, la volontà non si temprano, al contrario si dissolvono con l’abitudine della fantasticheria. Quando un re «regna e non governa» è vicino alla deposizione, e «non si guadagna una posizione senza lotta».
E il sogno ha i suoi crucci, più grandi che quelli dell’azione. Esso sovverte il fondo malsano giacente in noi e, come l’ozio, ne sprigiona le febbri malefiche, che rendono tristi. «Non sono stati mai visti, si dice, facchini melanconici»: non hanno tempo di esserlo.
Il rimedio dunque alla fantasticheria consiste in una vita occupata: è bene anzi di crearsi di fianco all’opera imposta dal dovere, una occupazione gradita, a cui ci si senta tratti naturalmente, nelle ore pesanti in cui siamo incapaci di sforzo. Essa sarà l’ultimo rifugio contro la peregrinazione fantastica.
[1] PROAL, op. cit., 410. Of. i capp. X e XI. – Cf. FR. JOLY, Les Lectures dans les prisons de la Seine. – BETHLEÉM, Romans à lire et romans à proscrire, Masson,Cambrai, 2a ediz., 1905, p. 38.
[2] PROAL, op. cit., 661.
[3] Ibid., 314.
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