di Luca Fumagalli
«Per la Scozia io canto,
la nazione rovinata da Knox,
che il poeta e il santo
devono ricostruire con la loro passione»
(George Mackay Brown, Prologue)
Continua la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.
Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:
Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown
«Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown
Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown
Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica:
“The Tarn and the Rosary” e “Winter Tale”
Per le precedenti puntate della rubrica:
“The Story of Jorkel Hayforks” / “Witch” / “Master Halcrow, Priest” / “Five Green Waves” / “A Treading of Grapes” / “The Wireless Set“ / “A Time to Keep“ / “The Bright Spade” / “Celia”
Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire la figura di Brown e quella di molti altri scrittori del cattolicesimo britannico, si segnala il saggio delle Edizioni Radio Spada “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto.
Barclay, il narratore di “The Eye of the Hurricane”, è uno scrittore in fuga da una fallimentare storia d’amore e alla ricerca della giusta ispirazione per terminare il suo ultimo romanzo, dedicato al pellegrinaggio in Terra Santa dell’Earl Rognvald Kolson e dei suoi vichinghi, nel XII secolo (episodio raccontato per esteso pure da Brown in un suo libro). Da tre mesi vive nel villaggio di Hamnavoe, nelle Orcadi, occupando l’appartamento al piano terra della casa del capitano Stevens: «Sono venuto ad abitare tra persone semplici e senza complicazioni. Lavoravo assecondando il ritmo blando e regolare dei pescatori e dei contadini. La mia immaginazione si nutriva di salutari fonti primitive, il mare e la terra. Mi pare che la mia scrittura avesse una chiarezza e una profondità mai raggiunta prima».
L’anziano capitano affoga nell’alcol il dolore causatogli, dieci anni prima, dalla morte della moglie e del figlioletto; chiuso nella sua stanza, crede ancora di essere su una nave, a capo di una ciurma di lupi di mare. Un tempo era davvero un ufficiale decorato e stimato, ma ora è ridotto a un relitto, del tutto simile a quello di un’imbarcazione danese che si è da poco incagliata tra gli scogli dell’isola e che i marinai paiono non voler rimettere in mare (del resto, è di gran lunga meglio godersi i liquori e le donne del luogo che faticare sul ponte di una nave).
Barcley, da sincero cattolico, crede di fare un gesto di bontà andando ogni settimana in paese a comprare una bottiglia di rum per il capitano, ma Miriam, la ragazza che si occupa delle pulizie, lo rimprovera, avvisandolo che Stevens ha già rischiato di morire in un paio di occasioni a causa del troppo bere. I due – sempre più intimi – decidono allora di collaborare e di fare di tutto affinché il capitano rimanga sobrio. Purtroppo, però, i loro sforzi sono vani: un giorno Barcley non riesce a impedire a due ex compagni di Stevens di entrare in casa con del rum. Finiscono così per condannare a un tragica fine il vecchio marinaio, che spira invocando il nome della moglie, e da quel giorno Miriam si rifiuta di rivolgere parola allo scrittore.
Nell’epilogo, dopo il funerale e la triste storia del capitano Falquist, suicida per amore, di cui il giovane Stevens dovette improvvisarsi sostituto nel bel mezzo di una tempesta, Barcley si ritrova a camminare per le viuzze di Hamnavoe, rincuorato da un concerto ascoltato alla radio, dalla giovialità degli avventori del bar e dei canti dell’Esercito della Salvezza, tra i cui membri vi è anche Miriam, «radiante sotto i lampioni della strada».
“The Eye of the Hurricane” ha in comune con altri acconti della raccolta A Time to Keep (1969) il tema del dolore. In questo caso la sofferenza deriva dalla perdita di un amore o di un’amicizia. Al di là del capitano, infatti, anche Braclay soffre a causa delle ferite causategli nell’animo dal burrascoso rapporto con Sandra; Falquist si è tolto la vita perché la moglie lo aveva abbandonato, e il marinaio Robert Jansen, ormai ammattito, cerca in ogni dove il suo compare Walls, affogato in mare tempo prima. Come dice Stevens, «c’è solo una cosa più importante del coraggio, cioè l’amore», ed ha così ragione che Barclay si trova bloccato al quinto capitolo del suo romanzo, incentrato su Rognvald ed Ermengarda, proprio perché fatica a rendere efficacemente il miracolo e la complessità di un simile sentimento. Lui stesso nel finale del racconto si trova costretto, almeno provvisoriamente, ad alzare bandiera bianca: «L’amore è un soggetto troppo profondo per la prosa; solo la musica e la poesia possono edificare ponti tra la furia del seme nel solco, l’accoppiamento delle bestie, la passione di uomini e donne, la preghiera del santo. Il seme e la bestia e il santo sono toccati con un semplice fuoco. […] So […] che tutti questi amori sono esaltati nel loro vero ordine, e semplificati, e riconciliati, nella ruota dell’essere il cui centro è l’Incarnazione; si muovono per sempre come stelle silenziose».
La riflessione di Barclay sull’amore è legata a doppio filo sia con la sua fede – che Miriam giudica insensata, ai limiti dell’idolatria – sia con la sua professione di scrittore. In “The Eye of the Hurricane” letteratura e religione vanno spesso di pari passo, e se Barcley, che vanta diverse somiglianze con Brown, spera «in un modo un po’ vago, che la scrittura sia il mio atto di carità, che forse i miei libri possano portare sollievo e felicità a qualche persona che non ho mai visto o conosciuto», allo stesso tempo si prende ampio spazio per raccontare i dettagli del processo creativo, la sua routine metodica, arrivando pure a confessare, in un momento di stallo, come forse tutto ciò che valeva la pena di essere scritto sia già stato messo nero su bianco da giganti del calibro di Cervantes, Tolstoj, Proust o Chaucher.
Nonostante i dolori causati da una vita imprevedibile e tremenda come un uragano, anche in “The Eye of the Hurricane” trionfa la speranza, figlia della consapevolezza che per tutti esiste, da qualche parte, un porto sicuro al quale approdare.
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L’immagine di copertina è tratta dal libro M. FERGUSSON, George Mackay Brown: The Life (John Murray, 2007).