di Luca Fumagalli

Anche se qualcuno vide in lui un papabile per il premio Nobel, Anthony Burgess (1917-1993) fu più uno scrittore di quantità che di qualità, tanto che col tempo il suo nome è finito nel dimenticatoio. Non è perciò un caso se l’unico suo romanzo ancora diffusamente letto, Arancia meccanica, debba la propria fama quasi esclusivamente all’adattamento cinematografico firmato dal regista Stanley Kubrick.

Burgess può essere dunque accusato, con buone ragioni, di aver troppe volte sacrificato il talento a una macchina produttiva che sfornava libri su libri a ritmi vertiginosi (facendosi beffe delle cinquecento parole al giorno prodotte da Graham Greene, sosteneva di riuscire, nello stesso tempo, a vergare due pagine intere, corrette e pronte per la stampa).

Allo stesso modo, però, all’interno di una bibliografia sterminata che comprende anche saggi, testi teatrali, sceneggiature e articoli di giornale, sarebbe ingiusto trascurare alcuni titoli niente male, i quali, sebbene non capolavori in senso assoluto, meritano almeno lo sforzo di una lettura. Limitandosi alla narrativa, tra i lavori migliori di Burgess figurano Il seme inquieto, un racconto distopico decisamente attuale, il prolisso ma avvincente Gli strumenti delle tenebre, forse il suo romanzo migliore, e la quadrilogia dedicata al buffo e sfortunato scrittore Enderby.

Con l’ovvia eccezione di Arancia meccanica e di una manciata di altre recenti ristampe, in Italia chi è interessato ai libri di Burgess è purtroppo costretto a ripiegare sui canali dell’usato e del modernariato. La situazione si fa ancora più problematica quando si è alla ricerca di studi o monografie a lui dedicati. Di valore, nella nostra penisola, non è mai stato prodotto praticamente nulla, un vulnus che appare davvero inspiegabile se si considera che lo scrittore britannico sposò in seconde nozze una donna di origini marchigiane, Liana Macellari, e dimorò per qualche tempo a Roma, possedendo pure una casa in campagna, a Bracciano, e un’altra proprietà a Montalbuccio. Soprattutto, venne coinvolto nel dibattito culturale del paese, distinguendosi per le sue posizioni conservatrici, figlie di quel cattolicesimo nel quale era cresciuto e da cui in seguito aveva preso, in parte, le distanze.

Dal 1978 al 1981 scrisse per «Il Giornale» di Indro Montanelli, passando poi al «Corriere della Sera». Si dice che la scelta fu dettata dal denaro, dal momento che in via Solferino lo pagavano tre volte tanto, ma c’è chi suggerisce che Burgess volesse piuttosto prendere le distanze da una collaborazione che giudicava ormai troppo scomoda. Famosa la battuta finale di Montanelli in una lettera aperta che gli indirizzò: «Ti auguro, caro Anthony, tutta la fortuna che non meriti».

Mentre ci si sta avvicinando alle celebrazioni per il trentennale della scomparsa dello scrittore, in Italia a scommettere su di lui, oltre a un paio di “big” come Einaudi e Minimum Fax, sono rimaste, per fortuna, alcune piccole realtà editoriali.

Ne è un ottimo esempio la De Piante Editore, che nel 2021 ha pubblicato l’elzeviro Il diavolo nella bottiglia, apparso per la prima volta sulle colonne del «Giornale» il 6 aprile 1980 (il titolo pare sia frutto dell’inventiva di Marcello Staglieno).

Partendo dalla recensione di un libro di Constantine FitzGibbon, giudicato di scarso valore, nell’articolo Burgess affronta il tema del rapporto tra letteratura e alcolismo. Dopo aver trattato dell’inspiegabile legame che si è generato nella storia tra alcune culture e l’alcol, si passa a una disamina di quei malesseri, innanzitutto la depressione, che possono condurre uno scrittore a cercare consolazione nella bottiglia. Il tema è affrontato da Burgess con lucidità ed empatia, tenendo sempre a mente la morte per cirrosi della sua prima moglie. La conclusione, caratterizzata da un accenno alla dottrina cristiana a proposito dei peccati capitali, sintetizza l’opinione dell’autore: «Scrittore io stesso, posso approvare la razionalizzazione che considera il bere come un piede di porco per forzare la facoltà creatrice. […] Un nuovo io, di una specie particolarmente ripugnante emerge – come un diavolo – dalla bottiglia».

Il piccolo volume, editorialmente raffinatissimo, è ulteriormente impreziosito da una prefazione di Renato Besana, che racconta del suo primo incontro con Burgess e della collaborazione di quest’ultimo con l’Editoriale Nuova, e da una postfazione di Luigi Mascheroni dedicata a quei romanzieri, più o meno famosi, che ebbero problemi con l’alcol. Le ultime pagine ospitano invece una sintetica nota bio-bibliografica.

Piacevole e di facile lettura, Il diavolo nella bottiglia non può quindi mancare nelle librerie di tutti gli amanti di Burgess (e non solo).  

Il libro: Anthony Burgess, Il diavolo della bottiglia, De Piante Editore, Busto Arsizio, 2021, 40 pagine, 20 euro.

Link all’acquisto: https://www.depianteditore.it/prodotto/anthony-burgess-il-diavolo-nella-bottiglia/