Volentieri presentiamo ai lettori questo importante estratto del V volume della Storia universale della Chiesa scritta dal Card. Hergenröther – L’apice della potenza ecclesiastica-politica dei Papi, le Crociate, la Scolastica.
La concordia fra le due supreme podestà – Chiesa e Stato, sacerdozio e impero – si aveva tuttavia come la condizione più necessaria alla salvezza del mondo cristiano[i]. E ciò si rappresentava per varie figure come: 1) dei due occhi necessari nel corpo umano (Gregorio VII)[ii]; 2) di due spade (Luc. XXII, 38), la temporale e la spirituale, ambedue ordinate alla difesa della Chiesa (Goffredo di Vendome), la prima da maneggiarsi perla Chiesa, la seconda dallaChiesa (S. Bernardo)[iii]; 3) dei due Cherubini dell’arca dell’alleanza (Esodo, XXXVII, 7 ss.)[iv]; 4) delle due preziose e ammirabili colonne, che ornavano l’entrata del tempio (giusta il III dei Re VII, 75; Ger. LII, 20 s.; così Innocenzo III)[v]. Ma era universale persuasione, che Chiesa e Stato non mai sarebbero uniti, se non quando questo rigettasse ogni opinione dannata per eresia dalla Chiesa, non impacciasse l’opera della Chiesa nell’amministrazione dei sacramenti e degli altri mezzi di salute, anzi riconoscesse la libertà sua nell’amministrazione e nel governo. E sebbene ciascuna parte avesse come alla sua propria sfera di diritti, pure la società politica abitava, per così dire, con la Chiesa sotto un medesimo tetto, cioè in una medesima casa: i suoi supremi reggitori, come parte del gregge di Cristo confidato a s. Pietro, erano sudditi della Chiesa soggetti al Papa, il quale teneva luogo di Dio. Per il rispetto della fede, la Chiesa doveva essere tenuta come l’ordine supremo: il che si esprimeva per le immagini già usate dai Padri col raffronto dell’anima e del corpo, del cielo e della terra[vi]. Analoga a quest’ultima è la similitudine che dopo Gregorio VII divenne assai frequente, dei due grandi luminari (Gen. I, 16) che splendono nel firmamento della cristianità [vii]. Come il sole irraggia la luna e questa da lui riceve la sua luce, così la Chiesa vince di splendore lo Stato per il suo più nobile fine e lo illumina e lo scorge ad una vita soprannaturale, più sublime. Ella presiede al giorno, cioè dire alle cose celesti; questo alla notte, cioè dire ai negozi terreni. Lo splendore della Chiesa era la felicità e la gioia dei più alti ingegni; la vittoria del regno di Dio sull’impero del mondo, il desiderio di tutta quanta la cristianità[viii].
E per tale eccellenza del regno di Dio su quello del mondo, e del fine della Chiesa su quello dello Stato era principio altresì riconosciuto universalmente che la Chiesa doveva giudicare dei principi temporali e delle loro leggi, ove lo richiedesse la salute delle anime, e che la podestà spirituale poteva estendersi alle cose temporali, ove toccassero il suo dominio e si trattasse di peccati. Quando la necessità lo ricerca, diceva s. Bernardo, allora vale la parola dell’Apostolo (I Cor. VI, 2): Che se per voi sarà giudicato il mondo, sarete voi indegni di giudicare di cose tenuissime?
Altra cosa è, dato il caso, occuparsi nelle cose temporali, quando stringe la necessità (incidenter, causa quidem urgente), altra abbandonarsi ad esse di proprio capo. Così la Chiesa esercitò più volte l’autorità sua indiretta sulle cose temporali, ma al tutto casualmente (casualiter), né mai intese pregiudicare al diritto altrui, né arrogarsi una podestà indebita[ix], come dichiarò espressamente Innocenzo III; il quale esaminò nelle particolari questioni la sua competenza, riconobbe l’indipendenza del re di Francia nelle cose temporali, interdisse ai giudici spirituali d’ingerirsi nei diritti della giustizia secolare[x]. E parimente Alessandro III non ammise le appellazioni dai giudici secolari al Papa, fuori degli stati della Chiesa[xi]. Quindi, sebbene i Papi stendessero la loro sollecitudine al regno celeste e al regno terreno, non mai affermarono con ciò che ambedue fossero a sé soggetti dello stesso modo, ma esaltavano la potestà del loro primato non ristretta da limiti di spazio, secondo il pensiero di s. Bernardo, e la distinguevano dall’autorità temporale e ristretta, che avevano sugli stati della Chiesa. Onorio III riservò espressivamente al re di Francia il decidere sul diritto di successione della regina di Cipro, e a sé non volle riservata che la decisione sul grado del matrimonio[xii]. Così ben lungi dal pretendere ad una monarchia universale, essi non miravano che a far prevalere la legge di Dio, a cui essi medesimi erano obbligati, e allora solo intervenivano, quando la necessità di provvedere ai diritti della Chiesa li obbligava, e quando un negozio temporale non era più solo temporale, ma strettamente legato con lo spirituale. E in ciò anche il diritto civile era in loro favore. Così le conseguenze del persistere ostinato nella scomunica erano la perdita della dignità e del diritto di comunicare coi fedeli e lo scioglimento del giuramento di fedeltà prestato dai fedeli stessi ad un principe scomunicato. Il rigore nondimeno delle antiche leggi che vietavano ogni commercio con gli scomunicati fu temperato appunto da Gregorio VII a favore di Enrico IV, e tale temperamento fu riconosciuto da Innocenzo III[xiii]. La deposizione dei re poi non era altro che una dichiarazione della perdita incontrata, secondo le leggi ecclesiastiche e civili, d’ogni autorità di governo, poiché non doveva governare sui popoli cristiani chi non era membro della Chiesa. Questa però non si pronunziava che dopo avere sperimentato tutti gli altri rimedi e dopo matura ponderazione, come ultimo riparo contro la tirannia dei principi e contro le ribellioni dei popoli. E i re la riconoscevano, finché non ne pericolavano i loro propri interessi, e di frequente supplicavano il Papa di valersene. Quelli poi che n’erano colpiti, ne contrastavano non tanto il principio, quanto l’applicazione. I vescovi ed i concili concordavano in questo coi Papi, e tutti ammettevano ad un modo che i re e i principi colpevoli di delitti religiosi, e massimamente di eresia e di scisma, potessero venire deposti della loro dignità e il giuramento a loro prestato essere sciolto dalla Chiesa.
Il Papa era altresì il capo supremo della società cristiana, ed insieme quegli che in essa introduceva e accettava. E come egli sceglieva e incoronava il primo sovrano temporale, cioè l’imperatore romano, così pure introduceva altri principi nella grande famiglia dei popoli cristiani, conferendo loro il titolo di re. Egli impediva spesso le sommosse, accordava le differenze, componeva le paci: egli insomma rappresentava come un tribunale universale dei popoli, di cui l’alta giustizia era da tutti universalmente riconosciuta. Egli guidava le imprese comuni della cristianità, rassicurava i deboli contro i potenti; era l’ultimo e più sicuro rifugio degli oppressi. Sotto la protezione di lui non pochi re mettevano sé stessi e i loro regni, quando temevano di assalti nemici. Per gli atti più importanti del loro governo, trattati, leggi, sentenze, privilegi, testamenti, donazioni e rivocazioni ricercavano l’approvazione apostolica. Così l’autorità della Sede romana si allargava ampiamente, anche negli affari politici; e alla dignità del pontificato si aggiungeva una potenza esteriore non piccola, nobilitata dall’operosità della maggior parte dei Papi. Laonde così scriveva nel 1148 l’abate Wibaldo a Papa Eugenio III: «Presso di voi è la manna, presso di voi è la verga di Aronne, presso di voi la dispensazione canonica, l’esposizione delle leggi, la moderazione delle regole, presso di voi l’olio ed il vino: vostro diritto perdonare agli umili ed abbattere i superbi». Fuori del mondo avrebbe da uscire, diceva s. Bernardo al medesimo Papa, chi vuole trovare cosa che non appartenga alla tua sollecitudine. Tu succedesti nella eredità agli Apostoli; tu sei dunque l’erede, e l’eredità è il mondo intero. Di esso è a te confidato il governo; ma non ti è conferito il possesso[xiv]. Quindi è che al Papa si davano i titoli più onorevoli, e non solo di Santità, ma anche di Maestà, di Maestà apostolica, di Sublimità, Altezza e simili[xv].
[i] Ivo Carnot., Ep. 28 ad Paschalem Papiam. Fridericus I, ap. Pertz, Mon. Germ. hist. Script. IV, 93. Innoc. II, ad Lothar., ap. Watterich l. c. II, 209. Pieno di ardore per le crociate scrive Orderieo Vitale (l. c. IX, 2, p. 652): Ecce sacerdotium et regnum, clericalis ordo et laicalis, ad conducendum phalanges Dei concordant. Episcopus et comes Moysem et Aaron reimaginantur, quibus divina pariter adminicula comitantur.
[ii] Greg. VII, L. I, Ep. 19 ad Rudolph. duc.: Sicut duobus oculis humanum corpus temporali lumine regitur, ita his duabus dignitatibus in pura religione concordantibus corpus Ecclesiae spirituali lumine regi et illuminari probatur.
[iii] Goffrid. Vindocin., Opusc. IV Migne, Patr. lat. CLVII, 220. Hildeb. Cenom. (Bibl. PP. max. XXI, 136). Richard. Cant. inter epp. Petri Bles. n. 73 (Migne l. c. CCVII, 226 s.). Petr. Vener. L. I, Ep. 17. S. Bernard., Ep. 256; De consid. IV, 3. Ioann. Saresb., Polycr. IV, 3. Gerhoch. Reichersp., De corrupto Eccl. statu (Migne l. c. CC, 803). Innoc. III, L. VII, Ep. 54, 212; I. IX, Ep. 217; I. X, Ep. 141; I. XI, Ep. 28; I. XII, Ep. 69. Henr. Gandav., Quodlib. VI, q. 33. La stessa figura presso l’imperatore Federico I (Radev., De gest. Frid. I, 10. Ep. ad Man. Comn. ap. Goldast, Const. imp. IV, 72) e Federico II (Const. a. 1220: Walter, Fontes p. 80), nello Specchio sassone e via via.
[iv] Innoc. III, Reg. imp. ep. 2 (Migne l. c. CCXVI, 997).
[v] Gerhoch., De investig. Antichr. I, 37, 88. Innoc. III l. c.
[vi] Ivo Carnot., Ep. 106 ad reg. Angl. Hugo a s. Victore, De sacram. I. II, pars 2, c. 4. Honor. Angustodun., De praecell. sacerd., ap. Pez, Thes. II, 1180. Innoc, III, Reg. ep. 18. Resp. ad nuntios Philippi, ap. Baloz., app. I, 647, 692. Alex. Hal., Summ. theol. p. 3, q. 40, m. 2. S. Thom., Summa theol. 2, 2, q. 60, a. 6 ad 3.
[vii] Gregor. VII, L. VII, Ep. 25; l. VIII, Ep. 21. Gerhoch. l. c. Innoc. III, L. I, Ep. 401; I. II, Ep. 294.Reg. Ep. 32. Gesta Innoc. c. 63. Il Papa, quale, «vicarius Christi» in Innoc. III, L. I, Ep. 326, 335; I. II, Ep. 209.
[viii] Intorno alla esaltazione della Chiesa: Otto Frising., Chron. 1. VII, Proem. Goffrid. Viterb. ad Urb. III (Migne l. c. CXCVIII, 877): Dum ss. matris nostrae Rom. ecclesiae culmen inspicio et eius eminentiae considero maiestatem, illud ante omnia necessarium esse intueor, ut, sicut ipsa omnibus noscitur praeesse principibus, ita omnes reges et principes et universae orbis ecclesiae doctrina eius et regimine adornentur, et ab ea tamguam a fonte iustitiae totius sapientiae regulis instruantur, quia nullum Scripturarum elogium noscitur esse authenticum, nisi ab eius sapientiae fluminibus sitientibus propinetur.
[ix] S. Bernard., De consid. I, 6, 7. Petr. Bles., Specul. iur. c. 16: Canonum enim vigor se extendit ad causas saeculares, ex quibus et in quibus animlte periculum versatur. Quantum enim ad hoc, ut animae provideatur, omnes personae spectant ad forum ecclesiasticum.
[x] Innoc. III, L. V, Ep. 128 (Migne l. c. CCXIV, 1130 s.); l. VII, Ep. 42. Concil. Later. IV, can. 42.
[xi] Alex. III, C. 7. Si duobus § 1 de appellat. II, 28.
[xii] Honor. III, c. 3. Tuam II, 10 de ord. cognit. (Migne l. c. CCXVI, 985, n. 15).
[xiii] Greg. VII, ap. Migne l. c. CXLVIII, 798. Gratian. c. 103, C. XI, q. 3. Urban. II, Ep. ad Geneb. Gratian. c. 110, C. et q. cit. Innoc. III, L. I, Ep. 38, p. 361: Nullus omnino nominatim, excommunicato communicare tenetur, nisi quaedam personae, quae per illud Gregorii Papiae capitulum Quoniam multos specialiter excusantur.
[xiv] Wibald., Ep. 114, p. 1209. S. Bernard., De cons. III, 1, l.
[xv] Titoli onorifici del Papa nel Phillips, Kirchenrecht § 239, p. 599 ss. Maiestas in Carol. Calv., Ep. ad Nicol. I, in Harduin, Concil. coll. V, 689, S. Bernard., Ep. 46, 136, 150, 166, 167. Guido Vienn., Ad Paschal. II, ap. Watterich l. c. II, 76. Ionnn. Saresb., Ep. 14, 15,28,30 (Migne l. c. CXCIX, 10 s.); indi maiestas apostolica, ap. Arnulf. Lexov., Ep. 144, p. 283; Petrus Vener., L. II, Ep. 28; l. III, Ep. 5, p. 246, 306; l. VI, Ep. 42, p. 459; Ioann. Saresb., Ep. 89. Sublimitas vestra, Ernald., abb. Bonaevall., Praef. ad Hadr. IV, in libr. de cardinal. operibus Christi, ed. Migne l. c. CLXXXIX, 1610; Petrus Vener., L. I, ep. 11, 21 ad Innoc. II, 79, 101. Wibald., Ep. 393, p. 1428. Quest’ultimo alterna quelli con altri titoli di celsitudo, excellentia, magnitudo, magnificentia, i quali titoli si portavano anche da imperatori, re, cardinali e vescovi. Wibald., Ep. 8, 27, 73, 112, 114, 136, 149, 163 e altrove sovente.
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Immagine in evidenza (modificata): David Monniaux (talk · contribs), CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons