di Luca Fumagalli

«Per la Scozia io canto,

la nazione rovinata da Knox,

che il poeta e il santo

devono ricostruire con la loro passione»

(George Mackay Brown, Prologue)

Continua la rubrica dedicata alla presentazione e al commento dei migliori racconti di George Mackay Brown, tra gli scrittori più significativi del cattolicesimo scozzese del XX secolo. Originario delle isole Orcadi, Brown fu poeta, romanziere, saggista e drammaturgo, capace di coniugare nei suoi lavori l’amore per le piccole patrie con l’universalità del messaggio cristiano.

Per una nota introduttiva sulla figura di George Mackay Brown e sulla sua opera si segnalano i seguenti articoli:

Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown

«Una bellezza e una verità senza prezzo»: la conversione di George Mackay Brown

Un canto per le Orcadi: sfogliando l’autobiografia di George Mackay Brown

Due articoli dedicati ad altrettanti racconti di Brown sono già apparsi fuori rubrica:    

“The Tarn and the Rosary” e “Winter Tale”

Per le precedenti puntate della rubrica:

“The Story of Jorkel Hayforks” / “Witch” / “Master Halcrow, Priest” / “Five Green Waves” / “A Treading of Grapes” / “The Wireless Set / A Time to Keep / “The Bright Spade” / “Celia” / “The Eye of the Hurricane” / “Icarus” / “A Calendar of Love” / “Sealskin” / “The Cinquefoil” / “The Drowned Rose” / “The Seven Poets”

Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire la figura di Brown e quella di molti altri scrittori del cattolicesimo britannico, si segnala il saggio delle Edizioni Radio Spada Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secoloLink all’acquisto.

Racconto che dà il titolo alla quinta raccolta di Brown, pubblicata nel 1983, “Andrina” è una riflessione sui temi dell’amore, della carità, della confessione e del pentimento, condotta con un linguaggio delicato, incline al metaforico, che svela il versante più lirico della prosa dell’autore scozzese. Si tratta di una ghost story piuttosto peculiare, che non ha nulla di spaventoso, in cui lo spettro di un defunto si fa tramite per il riscatto di un uomo gravato da un passato poco onorevole.

La storia, ambientata nell’immaginaria isola orcadiana di Selskay, è raccontata in prima persona dal capitano Bill Torvald, un vecchio lupo di mare ora in pensione.  Vive da solo, ma da qualche tempo, ogni sera, più precisamente quando il sole sta per tramontare per lasciare spazio alla notte, viene a visitarlo una misteriosa ragazza, Andrina, la quale, oltre a prendersi cura di lui, si dà da fare per rimettere un po’ di ordine in casa («Ha portato una lampada nel tuo tempo oscuro»). La giovane – a occhio e croce una ventenne – è pure appassionata di storie e il capitano le racconta volentieri qualcuna delle sue numerose avventure in mare. C’è solo un episodio della sua vita di cui si vergogna profondamente e su cui conserva un certo grado di reticenza.  

Un giorno Torvald si ammala e Andrina, stranamente, non viene più a trovarlo. Costretto a letto da un terribile febbre, il capitano riacquista un po’ di lucidità solo quando il postino gli consegna una lettera che, tuttavia, abbandona sul tavolo senza nemmeno leggere.

Dopo essersi completamente ripreso, Torvald si reca in paese per fare spese e per indagare sul conto di Andrina, della quale non sa praticamente nulla (in verità nessuno, sull’isola, ha mai sentito parlare di lei). Nel frattempo si rivolge direttamente al lettore e gli rivela tutta la verità a proposito di quell’evento, lontano nel tempo, che ancora lo tormenta. Si scopre così che il giovane Torvald, destinato ad andare all’università, si era innamorato perdutamente della figlia di un fattore, Sigrid, dalla quale aveva poi scoperto di aspettare un figlio. Colto dal panico, era fuggito arruolandosi in marina, per tornarsene a Selskay solo dopo cinquant’anni, «nella speranza che cinquanta inverni avessero fatto la crosta su una vecchia ferita».

Quando rientra a casa, apre finalmente la lettera che ancora giace sul tavolo: proviene dalla Tasmania ed è firmata da un’anziana Sigird. Quest’ultima gli scrive di sua nipote Andrina, morta da poco, che l’ha resa molto felice. Del nonno ha raccontato solo cose belle e la ragazza fremeva dalla voglia di conoscerlo, di prendersi cura di lui e di sentire le molte storie che sicuramente aveva da raccontarle: «Un giorno andrò in Scozia e busserò alla sua porta, dovunque lui viva, e farò un sacco di cose per lui. […] Deve essere una brava persona, il vecchio marinaio, se tu l’hai amato».

Torvald comprende di avere avuto a che fare con un fantasma, figlio di quel tempo liminale che è il crepuscolo. Senza meritarselo, Andrina ha tolto un peso dalla sua coscienza e, allo stesso tempo, gli ha donato una nuova speranza: «Ho pensato allo splendore, alla fioritura e alla rugiada che quella creatura ha portato sulla soglia del mio ultimo inverno […] Lì, dove lei era polvere, un tempo nuovo sta schiarendo la terra e il cielo».

In “Andrina”, così come in quasi tutti gli altri racconti della raccolta, l’ambiguità e il fantastico si associano a una migliore capacità da parte di Brown di penetrare la psicologia dei suoi personaggi. Il tempo della narrazione pare distorto, fluttuando avanti e indietro senza soluzione di continuità, a mo’ di risacca, e un sapiente tessuto di rimandi lessicali evoca tanto la sostanza spettrale della vicenda quanto la profonda diversità che vi è tra Torvald, con la sua scorza apparentemente dura che sa di sale, e la dolce spensieratezza di Andrina, sempre sorridente e generosa. La vicenda termina quindi con un lieto fine all’insegna della redenzione, con il trionfo del perdono sulla meschinità di un uomo che non ha saputo affrontare le sue responsabilità, anteponendo ai doveri il proprio tornaconto.  

***

Decisamente più enigmatico è invece “The Day of the Ox”, parte della medesima raccolta. Il brevissimo racconto, una miscela di realtà e mito, si esaurisce in una strana allegoria che, al netto dei palesi rimandi evangelici, sfugge a un’immediata decifrazione. Forse si parla dell’invasione vichinga delle Orcadi oppure della conversione delle isole, con il cristianesimo che spazza via definitivamente un paganesimo ormai inaridito.

L’anonimo protagonista descrive la vita di un villaggio costiero, un luogo che, a suo dire, è caduto vittima di «una pace grigia». Del resto è da molti anni che non si registrano eventi rilevanti, nulla di clamorosamente felice o terribile, tanto che pure l’arte ne risente e i bardi hanno smesso di comporre nuove canzoni. In effetti la situazione è abbastanza anomala, a maggior ragione per una comunità che vive di agricoltura e pesca, solitamente soggetta ai costanti capricci di una natura che è madre e matrigna: «Gli elementi si comportano in modo differente da noi. La terra prende il nostro sudore e il nostro sangue, e qualche volta è generosa con noi, e qualche volta è avara. Così anche il mare, che ricopre gli scogli con argento serpeggiante, oppure fa affogare un giovane con la sua barca e lascia il villaggio affamato».

Una notte tutti gli abitanti sono visitati dal medesimo sogno: un uomo dai capelli biondi, circondato da uno strano bagliore, entra nella casa del capo del villaggio, pasteggia con pane e pesce per poi allontanarsi senza dire una parola. Il significato del sogno non è chiaro: c’è chi lo interpreta come un segnale positivo e chi, al contrario, vi intravede i moniti di una sciagura imminente; quel che è certo è che i raccolti successivi sono singolarmente ricchi e la pesca è abbondante.

Sul finire dell’inverno il narratore è scelto per mettere il giogo a un bue, una cerimonia tradizionale, a cui partecipa tutta la comunità, che simboleggia l’inizio della bella stagione, con la terra e il mare pronti a elargire i loro frutti. Mentre compie le azioni rituali, sulla spiaggia, accanto a una nave, l’uomo nota improvvisamente la figura del sogno con dodici compagni armati d’ascia. Tutti, compreso il bue, si inchinano ai nuovi venuti.       



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Fonte immagine: George Mackay Brown, Rockpools & Daffodils: An Orcadian Diary, 1979-91 (Wright Gordon, 1998)