di Luca Fumagalli
Sul fatto che il Biancospino di Glastonbury, ribattezzato la “Sacra Spina”, abbia proprietà eccezionali non vi è alcun dubbio. A differenza degli altri biancospini fiorisce due volte all’anno, e quando si è tentato di seminarne le bacche altrove, il risultato è stato quello di veder nascere solo varianti comuni.
Dal momento che una pianta simile si trova in Palestina, qualcuno ha avanzato la teoria che il Biancospino possa essere stato portato in Inghilterra, in epoca medievale, da un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa o da un crociato. La tradizione racconta invece che tutto ebbe origine con l’arrivo a Glastonbury, il giorno di Natale, di Giuseppe d’Arimatea, in cerca del luogo in cui Cristo gli aveva comandato di costruire una chiesa in onore della Madonna. Dato che la popolazione locale era abbastanza scettica a proposito della sua missione, Giuseppe chiese a Dio di concedergli la grazia di un miracolo per dimostrare loro la sua buona fede. Fu così che il suo bastone, una volta piantato nella terra della collina di Wearyall Hill, prese a germogliare fino a che divenne un biancospino.
Al di là della vicenda della “Sacra Spina”, Giuseppe d’Arimatea è una figura legata a doppio filo al cristianesimo britannico, tanto che gli inglesi si sono sempre vantati di aver ricevuto il Vangelo direttamente dalle sue labbra. Un’altra tradizione – citata pure da William Blake in “Gerusalemme” – vuole addirittura che Giuseppe, interessato al commercio dello stagno, abbia visitato le miniere della Cornovaglia in compagnia di Gesù quando questi era solo un ragazzo (non va dimenticato che l’uomo è ritenuto da alcuni commentatori lo zio di Maria, il fratello minore del padre di lei).
Sul destino di Giuseppe in seguito alla Passione di Cristo si dilungano fonti variamente attendibile come l’apocrifo Gli atti di Pilato, La vita di Giuseppe d’Arimatea – un testo in versi ampiamente diffuso nel Medioevo ma di origine più antica – e le note dello storico Gildas, attivo nel VI secolo. Secondo tali documenti, Giuseppe, dopo che ebbe riempito due ampolle contenente il sangue e l’acqua versati dal costato di Gesù, venne condannato a quaranta giorni di prigione dal sinedrio. Con la Pentecoste, di nuovo libero, stette accanto a Maria per poi andare in Gallia, con San Filippo, allo scopo di predicare la parola di Dio. In compagnia di altri undici missionari raggiunse poi le coste britanniche trovando infine rifugio a Glastonbury, sulla Wearyall Hill, allora un’isoletta circondata dagli acquitrini, ribattezzata dagli indigeni “Avalon”, cioè “l’isola di vetro”. Lì Giuseppe fece erigere un’umile chiesa, la cosiddetta “Wattle Church”, la prima mai costruita sul suolo britannico, e al suo interno vi collocò un’immagine della Vergine che lui stesso aveva inciso. Quando morì, venne sepolto in quel luogo insieme alle due ampolle che aveva sempre tenuto con sé.
Indipendentemente dalla veridicità o meno della parabola missionaria di Giuseppe d’Arimatea, è certo che quando Sant’Agostino di Canterbury, nel 597, arrivò da Roma per convertire gli anglosassoni, a Glastonbury si imbatté in una fiorente comunità cristiana (da lì, oltre a innumerevoli torme di pellegrini, si dice che siano passati pure santi del calibro di San Patrick, patrono d’Irlanda, e San David, patrono del Galles). Sulla Wearyall Hill, accanto alla “Wattle Church”, vennero eretti poco alla volta altri edifici, tra cui alcune chiese e un’abbazia benedettina, e lì pare sia stato sepolto anche il leggendario Re Artù, in lotta per la fede contro i sassoni. A Nostra Signora di Glastonbury era devoto pure Alfred il Grande, celebrato da G. K. Chesterton nella Ballata del cavallo bianco per la sua straordinaria vittoria sugli invasori danesi.
Purtroppo la “Wattle Church” venne distrutta in un incendio nel 1184, ma il nome di Giuseppe d’Arimatea tornò di nuovo in auge con il diffondersi della leggenda del Sacro Graal legata ad Artù e ai suoi cavalieri, proprio in un momento in cui all’interno della Chiesa si stava consumando un vivace dibattito introno alla natura dell’Eucarestia, un dibattito che avrebbe portato, in seguito, alla definizione del dogma della transustanziazione.
Se sotto il regno di Enrico VIII, allorché iniziò a scontrarsi con il Papa, i monaci di Glastonbury presero dapprima le parti del re, in seguito non mancarono di criticarne la condotta con una determinazione tale che nel 1539 l’abate dell’epoca, Richard Whiting, finì per subire un brutale martirio. Alle spoliazioni operate dagli sgherri del sanguinario Tudor – immortalate dalla penna di un indignato Wordswoth –, seguirono le devastazioni dei puritani, i quali, inebriati di fanatismo iconoclasta e dei fumi delle predicazioni anti-papiste, fecero scempio degli edifici ecclesiastici e non ebbero scrupoli ad abbattere la “Sacra Spina” (per fortuna molte spine sono poi germogliate dalla medesima radice e ancora oggi, ogni anno, a Natale, un ramo di Biancospino viene offerto in dono al sovrano inglese).
A raccontare con dovizia di particolari l’affascinante storia della pianta ci ha pensato nel 1962 Hugh Ross Williamson in un volumetto, The Flowering Hawthorn, che oggi ritorna sugli scaffali delle librerie grazie alla solerzia dalla canadese Arouca Press, una casa editrice di recente fondazione che sta facendo un gran lavoro per dare nuovamente alle stampe i classici dell’apologetica cattolica di lingua inglese, di cui Williamson è uno degli esponenti di spicco. Quest’ultimo, scomparso nel 1978, era infatti un convertito, storico ed ex prelato anglicano, uno di quei britannici alla Evelyn Waugh o alla Michael Davies che mal sopportava le riforme liturgiche partorite dal Concilio Vaticano II e che sempre si prodigò in favore del “Vetus Ordo”.
Anche nel suo breve studio sul Biancospino di Glastonbury, Williamson infonde tutta la passione di un saggista consumato, soppesando le notizie, valutando e argomentando con grande scrupolo, senza lasciare nulla al caso, attento a fornire chiavi di lettura le più convincenti possibili. Ne risulta un testo gradevolissimo, un gioiellino della pamphlettistica cattolica da custodire gelosamente nella propria biblioteca.
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L’immagine del Biancospino è tratta da https://contemplativeinquiry.blog/2021/04/23/remembering-the-glastonbury-thorn/