di Luca Fumagalli

Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire la figura di J. R. R. Tolkien e quella di molti altri scrittori del cattolicesimo britannico, si segnala il saggio delle Edizioni Radio Spada Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secoloLink all’acquisto.

Tolkien e la grande guerra di John Garth è forse il saggio che meglio approfondisce l’esperienza del giovane scrittore inglese sul Fronte Occidentale. Per quanto Garth esageri l’influenza che il Primo conflitto mondiale ebbe sull’immaginario tolkieniano, è altrettanto vero, però, che la guerra è uno dei temi più ricorrenti nel suo legendarium. Lo notò anche C. S. Lewis, secondo cui l’epica dell’amico «possiede le caratteristiche autentiche della guerra che la mia generazione ha conosciuto». Shippey, in J. R. R. Tolkien: la via per la Terra di Mezzo, rincara la dose affermando che Il Signore degli Anelli «è un libro di guerra e sul dopoguerra, inquadrato nella crisi della civiltà occidentale (1914-1945 e oltre) rispetto alla quale costituisce una forma di risposta».

Nelle trincee della Francia affondarono le speranze di un’intera generazione di inglesi: mentre Tolkien perdeva i suoi amici più stretti, quelle anime affini che con lui avevano coltivato, sin dai tempi del liceo, il sogno di redimere il mondo dalle brutture e dalle volgarità, migliaia di altri suoi compatrioti videro deflagrarsi in quella mattanza disumana i nobili ideali che avevano portato molti di loro ad arruolarsi come volontari: «Le attitudini nei confronti della guerra erano cambiate», scrive Pearce in Catholic Literary Giants, «perché la guerra stessa era cambiata. La guerra non era più una prova di forza tra uomini ma tra l’uomo e la macchina, o addirittura, e sempre di più, tra la macchina e la macchina (e l’uomo in mezzo). Non vi era nulla di glorioso nell’uscire dalla trincea verso una morte certa tra il fuoco delle mitragliatrici, nulla di glorioso nel gas tossico o nel filo spinato; nulla di glorioso nella “febbre da trincea” e nella dissenteria. La guerra non era più dei combattenti ma delle macchine di morte e dei campi di morte. La guerra era ora la vittoria delle macchine sull’uomo».

Pearce, parlando della Macchina, rievoca nel contesto bellico uno dei temi più cari a Tolkien, spaventato dal crescente asservimento dell’uomo moderno nei confronti della tecnologica annichilente (al Fosso di Helm Aragorn si accorge che il malvagio Saruman ha escogitato «qualcosa di diabolico. Hanno un fuoco che squarcia esplodendo»). All’alba del XX secolo l’epica dell’età cavalleresca era stata ridotta a un gioco al massacro, dove la morte è costantemente dietro l’angolo e, cosa ancora più terribile, mero frutto del caso, dipendendo poco o nulla dall’abilità del singolo soldato. Per Mingardi e Stagnaro, una guerra siffatta «determina una terribile mutazione antropologica. Cancella la pietà e chiama i sentimenti più oscuri».

Perciò l’esperienza sul Fronte Occidentale segnò in profondità la giovinezza di Tolkien. «Una guerra è abbastanza per un uomo. Spero che a te verrà risparmiata la seconda», scriveva al figlio Michael il 9 giugno del 1941. In altre lettere fu più pungente, parlando dello «spreco di tempo» e del «militarismo» ottuso dell’esercito: «Non è la durezza che preoccupa. Anch’io ci sono passato, proprio quando ero pieno di cose da scrivere e cose da imparare, e non ho mai recuperato il tempo perso». Altrove: «Tra i superiori non esistono gentiluomini, e persino gli esseri umani sono rari».

Ancora, il 30 aprile del 1944, in un’epistola al figlio Christopher, pilota della Raf: «Lo stupido spreco della guerra, non solo materiale ma morale e spirituale, è così duro per chi lo deve sopportare. Ed è sempre stato così (nonostante i poeti) e lo sarà sempre (nonostante chi fa propaganda per la guerra): naturalmente non che non sia e sarà necessario doverla affrontare in un mondo corrotto. Ma è così corta la memoria degli uomini e sono così evanescenti le generazioni che fra poco più di trent’anni ci sarà pochissima gente o addirittura nessuno che abbia esperienza diretta della guerra, l’unica che colpisce veramente il cuore. Solo scottandosi si impara a conoscere il fuoco. A volte mi spavento al pensiero della quantità di miseria umana che esiste in tutto il mondo in questo momento: i milioni di persone divise, angosciate, che sprecano giornate inutilmente – senza contare la tortura, il dolore, la morte, le perdite, l’ingiustizia. Se l’angoscia si potesse vedere, quasi tutto questo mondo ottenebrato sarebbe avvolto in una nuvola densa di vapore scuro, nascosto agli occhi stupiti del cielo. E i risultati di tutto questo saranno per lo più malefici, considerandoli da un punto di vista storico».

La guerra, in un mondo macchiato dal peccato, è ineluttabile. Il professore di Oxford in questo è realista, non si fa illusioni, ma ciò non significa che fosse un guerrafondaio, come invece qualcuno ha provato a insinuare (ne parla lungamente James E. Person nell’articolo The Transcendent in Tolkien). Altrettanto certamente non era un pacifista, ma le sue lettere e i suoi racconti lasciano trapelare un giudizio chiaro e univoco sull’orrore della guerra. Basti pensare, a titolo d’esempio, alla terribile scena degli Orchi che assediano Minas Tirith, quando questi scagliano le teste dei prigionieri al di là delle mura cittadine: «Ma, pur sfigurate com’erano, accadeva spesso che un uomo rivedesse il volto di qualcuno che conosceva, che portava fieramente le armi, o coltivava i campi, o che un giorno di vacanza era venuto a cavallo dalle verdi valli sulle colline». Di più, la Seconda guerra mondiale aveva portato via a Tolkien pure quella natura che tanto amava: «Gli alberi e le campagne sono diventati aeroporti e obiettivi da bombardare».

Se la guerra nei suoi scritti non viene mai idealizzata – tra l’altro ne Il Signore degli Anelli essa non esaurisce lo scontro, dato che la missione di Frodo e Sam è ancora più importante – parimenti egli fu capace di non ridurre il nemico a un’astrazione disumana da abbattere. Tornando sulla Somme, così scrive Rialti: «Tolkien sapeva che stava combattendo per la causa giusta, ma amava troppo la cultura tedesca per poter ricorrere a questa scappatoia. Carpenter racconta l’episodio quando, dopo la vittoria sui tedeschi, “Tolkien parlò con uno degli ufficiali che erano stati catturati, offrendogli da bere; l’ufficiale corresse la sua pronuncia tedesca”. Spesso la sua epica è stata accusata di presentare un conflitto a scacchiera con un dualismo semplicista. Ma chi solleva queste obiezioni tralascia passaggi come quelli in cui Sam si trova vicino a un soldato del Nemico ed “era contento di non poter vedere il viso del morto. Avrebbe voluto sapere da dove veniva e come si chiamava quell’Uomo, se era davvero di animo malvagio o se non erano state piuttosto menzogne e minacce a costringerlo a una lunga marcia lontano da casa; se non avesse invece preferito restarsene lì in pace”».

La guerra in Tolkien non è solo un conflitto spirituale con se stessi, ma significa anche affrontare un avversario oggettivo ed esterno. Quando il Consiglio di Elrond si riunisce, lo fa proprio perché è certo che la guerra sia imminente e che sia necessario scegliere tra l’ignorare una tale certezza oppure rispondere alla minaccia con tutta la forza e la saggezza di cui sono capaci i popoli liberi.

Il professore di Oxford, scrivono Witt e Richards, «sposò una visione profondamente radicata nella tradizione cristiana: la dottrina, appunto, tradizionale della guerra giusta. I Padri della Chiesa la elaborarono fondandola sulle Scritture e su argomenti di diritto naturale». Sebbene i dettagli teorici siano complicati – sicuramente Tolkien li conosceva – le condizioni perché si possa parlare in ambito cattolico di guerra giusta rientrano in una breve lista che comprende, tra l’altro, la giusta causa, la retta intenzione di chi usa la forza, l’essere l’ultima risorsa disponibile e la proporzionalità dei mezzi. A maggior ragione tutto ciò vale, come nel caso de Il Signore degli Anelli, se si tratta di una guerra a scopi difensivi.

È solo a partire da questo convincimento che il professore di Oxford riuscì a restituire una dimensione epica e “umana” ai conflitti di cui racconta nelle sue opere. Nessuno vorrebbe la guerra, soprattutto i piccoli Hobbit, ma la realtà è “vocazione” e alle sue chiamate – ancorché indesiderabili – bisogna pur sempre rispondere.

La condotta di guerra dei popoli liberi, poi, è caratterizzata da una “fantasia” – o, se si preferisce, da una “follia” – che è del tutto estranea alla ferrea razionalità del Male (il diavolo è “loico”, come ricorda a Dante, nella Divina Commedia, l’anima dello sventurato Guido da Montefeltro). Mai Sauron si sarebbe aspettato che qualcuno potesse rinunciare volontariamente al potere dell’Anello e che, anzi, cercasse addirittura di distruggerlo. Il suo Occhio, intento a scrutare gli esiti del conflitto in atto, non si cura minimamente di Frodo e Sam che possono così giungere al Monte Fato per completare con successo la loro missione. Oltre al caso di Gollum, non mancano neppure episodi che testimoniano la compassione e la clemenza verso gli sconfitti: ad esempio, quando i cavalieri di Rohan catturano un gruppo di Uomini delle colline, alleati di Saruman, s’impone a questi ultimi di consegnare le armi e di lavorare per la ricostruzione, concedendo loro l’opportunità di ricominciare. Si assiste a simili atti anche dopo la battaglia dei Campi del Pelennor e dopo quella del Nero Cancello.

Ciò che manca nei popoli liberi dell’universo tolkieniano è quel devastante ideale superiore, già condannato da Simone Weil, per cui si combattono le guerre moderne e in nome del quale vengono giustificate efferatezze di ogni sorta. Lo dimostra pure la posizione che il professore assunse al tempo del Secondo conflitto mondiale: quantunque disprezzasse i totalitarismi, non era così sciocco da credere che l’azione militare alleata sarebbe stata il rimedio a ogni male. Per questo la lotta nella Terra di Mezzo è un conflitto anti-ideologico, proprio perché è condotto contro l’Anello, cioè contro il potere in quanto tale: «Tutto va avanti con nomi diversi», scrive Tolkien al figlio Christopher, «e tu e io apparteniamo alla parte dei sempre sconfitti ma mai sottomessi. Avrei odiato l’Impero romano all’epoca (e difatti lo odio), e sarei rimasto un cittadino romano pieno di patriottismo, preferendo una Gallia libera e vedendo il lato buono dei cartaginesi. Delenda est Carthago. È una frase che si sente spesso oggigiorno. In realtà a scuola mi è stato insegnato che si trattava di una bella frase: e io “reagivo” (come si dice, in questo caso applicandomi meno del solito) subito. C’è ancora qualche speranza che, almeno nella nostra amata terra di Inghilterra, la propaganda sconfigga se stessa e produca persino l’effetto opposto. Dicono che è così persino in Russia; e scommetto che è così anche in Germania».

In tale contesto germoglia la vera dimensione eroica che per Tolkien significa prima di tutto coraggio, abnegazione e sacrificio: «È l’eroismo della dedizione e dell’amore, e non quello dell’orgoglio e dell’ostinazione, a essere il più alto e il più commovente». Ecco perché l’umile a valoroso Sam Gamgee, stando a quanto scrive il professore di Oxford in una sua lettera, «è una riflessione sui soldati semplici inglesi e sugli attendenti che ho conosciuto durante la guerra del ’14, un modo per dimostrare come fossero molto superiori a me stesso». Shippey, che in J. R. R. Tolkien autore del secolo nota correttamente come la mitologia nordica cara a Tolkien preveda, con il Ragnarök, la vittoria finale del male, scrive: «Alle persone questa mitologia nordica chiede di più del cristianesimo, poiché non offre Paradiso, né salvezza, né compenso per la virtù se si eccettua l’austera soddisfazione di aver fatto il bene».

Ne Lo Hobbit e ne Il Signore degli Anelli tale forma di coraggio norreno – ovviamente temperata dal cattolicesimo dell’autore – è una delle virtù maggiormente rappresentate: «Non vi fu mai molta speranza», dice Gandalf ponendo la mano sul capo di Pipino, «la speranza di uno stolto, come mi è stato detto». In Bilbo, che tutto solo decide di avvicinarsi a Smaug, e in Frodo che continua imperterrito la marcia verso le terre del Nemico, non vi è nessuna irruenza e nemmeno avventatezza. La guerra giusta, è bene non dimenticarlo, presuppone ragionevoli possibilità di successo (anche se scarse). Quando Faramir, su ordine del padre Denethor, sta per intraprendere una missione suicida per proteggere le difese orientali, Gandalf lo implora dicendo: «Non gettare via la tua vita con troppa temerarietà, o per troppa amarezza […]. C’è bisogno di te qui, e per ben altre cose che la guerra».  

La lezione di Tolkien sulla guerra ricorda quindi, con qualche piccolo aggiustamento, un celebre aforisma di Oscar Wilde: sebbene l’uomo sguazzi nel fango (delle trincee), per fortuna c’è ancora qualcuno capace di guardare alle stelle.


Fonte: L. FUMAGALLI, La Società della Contea. Appunti sulla filosofia politica di J. R. R. Tolkien, NovaEuropa Edizioni, 2019.



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