di Lorenzo Roselli
Si riapre, puntuale come sempre, la sterile polemica natalizia sul Presepe nelle scuole e nei luoghi di lavoro; quasi sempre va detto, ad opera di irreligiosi che si rivelano particolarmente interessati alla sensibilità di studenti e dipendenti di altre confessioni.
Ma non è a questa fokloristica diatriba italiana che vorrei dedicare queste poche righe, bensì su uno speculare ancor più deprecabile, a mio personale parere: quello sulla mangiatoia.
Capita spesso infatti di sentir pronunciare massime da osteria quali: “Cristo è nato clandestino”, “Maria e Giuseppe erano dei fuorilegge”, la Sacra Famiglia “si è recata a Betlemme perché emigrata dalla propria terra”.
Tutto vecchio repertorio, insomma, su cui oggi Saverio Tommasi fonda istanze di teologia politica da far impallidire Carl Schmitt.
Eppure Betlemme, come Nazareth, faceva parte della Giudea e i giovani sposi vi si stavano recando per un censimento dell’autorità imperiale.
Nell’episodio evangelico non vi è alcuna traccia della leggenda aurea che molti amano citare con fare erudito, nemmeno nei vangeli apocrifi dell’Infanzia in cui sono narrati alcuni aspetti iconici della Natività, come il bue e l’asino.
Vi è poi chi nel lodevole atto di smontare questi luoghi comuni, si spinge in elucubrazioni altrettanto improbabili secondo cui Giuseppe, in fondo, era proprietario di una falegnameria avviata, Maria di stirpe nobile: Gesù era benestante. Quasi a dire che la povertà in cui Nostro Signore scelse di manifestarsi al Mondo fosse nulla più di un incidente di percorso dovuto alla cattiva organizzazione, magari.
Questo è dimenticare l’autentica povertà raccontata dalla mangiatoia in cui il Re dei Re si è incarnato, negli stessi termini del benpensante di turno.
“Il Natale si fonda su un meraviglioso ed intenzionale paradosso: che la nascita di un senzatetto debba essere celebrata nella casa di tutti“ diceva un certo G.K. Chesterton, intendendo con questo che la povertà, la modestia, la vicinanza all’ultimo e all’oppresso sono presenti nel ministero di Cristo fin dalla sua venuta al mondo; ma lo sono per una scelta di perfezione.
Mentre c’è chi battaglia sulle valenze socio-culturali di questa scena testamentaria evidentemente molto scomoda, celebrando nel frattempo una festività nel nome della quale un’azienda pornografica d’Oltreoceano ha persino realizzato un coupon natalizio da scambiarsi in famiglia, mi piacerebbe poter vedere ancora l’Avvento come un periodo di perfezionamento e santificazione.
Vi è in tal senso un passaggio molto significativo dei racconti del Mondo Piccolo di Guareschi, che vede Don Camillo e Peppone alle prese proprio con il presepe parrocchiale:
“Don Camillo pescò in fondo alla cassetta e tirò su un affarino rosa, grosso quanto un passerotto, ed era proprio il Bambinello. Peppone si trovò in mano la statuetta. Senza sapere come, e allora prese un pennellino e cominciò a lavorare di fino. Lui di qua e don Camillo di là della tavola, senza potersi vedere in faccia perché c’era fra loro, il barbaglio della lucerna.
«È un mondo porco» disse Peppone. «Non ci si può fidare di nessuno, se uno vuoI dire qualcosa. Non mi fido neppure di me stesso.»
Don Camillo era assorbitissimo dal suo lavoro: c’era da rifare tutto il viso della Madonna. Roba fine.
«E di me ti fidi?» chiese don Camillo con indifferenza.
«Non lo so.»
«Prova a dirmi qualcosa, così vedi.»
Peppone fini gli occhi del Bambinello: la cosa più difficile. Poi rinfrescò il rosso delle piccole labbra. «Vorrei piantare li tutto» disse Peppone. «Ma non si può.»
…Peppone sospirò ancora.
«Mi sento come in galera» disse cupo.
«C’è sempre una porta per scappare da ogni galera di questa terra» rispose don Camillo. «Le galere sono soltanto per il corpo. E il corpo conta poco.»
Oramai il Bambinello era finito e, fresco di colore e così rosa e chiaro, pareva che brillasse in mezzo alla enorme mano scura di Peppone. Peppone lo guardò e gli parve di sentir sulla palma il tepore di quel piccolo corpo. E dimenticò la galera.”
Il Santo Natale a pensarci bene è tutto qui: approcciarci a quella mangiatoia.
Guardarla per dimenticare le nostre afflizioni, i nostri capricci, le nostre debolezze, il nostro orgoglio, i nostri lati più turpi come i nostri pensieri più impuri e abietti. Guardarla per essere edificati e un po’ commossi, proprio come Peppone.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul blog Campari & De Maistre