di Luca Fumagalli
Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire la figura di Marshall e quella di molti altri scrittori del cattolicesimo britannico, si segnala il saggio delle Edizioni Radio Spada Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo. Link all’acquisto.
Don Arturo Carrera y Granja, un prete onesto che mal sopporta l’ipocrisia di una Chiesa spagnola che bada più alla forma che alla sostanza, inizia a provare una sincera attrazione per l’ideologia comunista. Allo scoppio della guerra civile abbandona così l’abito e passa dalla parte dei repubblicani, lavorando per il servizio d’informazione. Eppure, col trascorrere dei mesi, si accorge che il “nuovo mondo” profetizzato dalle forze progressiste in fondo non è molto migliore di quello vecchio e, ancora una volta, finisce per essere preda del dubbio e del rimorso. Intanto, mentre l’uomo stringe una relazione con una giovane ballerina e prostituta chiamata Soledad, sia i repubblicani che i nazionalisti sono sulle tracce del dito di San Giovanni della Croce, una reliquia che, secondo tradizione, garantisce al possessore l’invincibilità.
Pubblicato nel 1952 e tradotto in italiano nello stesso anno dalla casa editrice Longanesi, La sposa bella (The fair Bride) è un romanzo per certi versi atipico nella produzione di Bruce Marshall. Si tratta, infatti, di uno dei pochissimi casi in cui un sacerdote – figura protagonista dei suoi lavori più fortunati – non è ritratto in un contesto quotidiano ma in una situazione al limite, dove a prevalere sono il dramma e i toni cupi. Lo scrittore scozzese mostra così di volersi allineare, almeno per una volta, a illustri predecessori quali il Graham Greene de Il potere e la gloria o il Bernanos del Diario di un curato di campagna, senza per questo rinunciare al suo umorismo benevolmente graffiante (una battuta su tutte: «Non c’è ormai più alcun dubbio. La Chiesa militante è inefficiente al novantanove per cento. Ma se lavoreremo tutti sodo per un centinaio d’anni, allora sarà inefficiente solo per il novantotto per cento, purché naturalmente i vescovi tengano la bocca chiusa»). Non manca nemmeno la consueta verve citazionista, né il plurilinguismo, con ampi inserti in spagnolo, perlopiù canzoni, che contribuiscono a rendere l’ambientazione ancora più verosimile.
Come avverte l’autore nella prefazione, il libro, dedicato al maestro e amico Geddes MacGregor, «urterà probabilmente due generi di lettori: quei progressisti che immaginano di essere i soli saggi e virtuosi e quei tradizionalisti che non si rendono conto della responsabilità a cui li obbligano le tradizioni ereditate». In effetti l’approccio di Marshall, che sceglie di lasciare le vicende belliche sullo sfondo per buona parte della trama, è tutt’altro che manicheo, evitando di ridurre la guerra in atto a uno scontro tra bene e male. Così come non tace le violenze perpetrate dai repubblicani a danno di numerosissimi civili e religiosi inermi, allo stesso modo si rifiuta di dipingere le forze nazionaliste alla stregua di un’armata di santi. Marshall è scrittore troppo acuto per trascurare il fatto che l’animo umano è sconquassato da continue contraddizioni; anche il generale repubblicano Clave, pronto a usare Guernica e casi analoghi in funzione propagandistica, in fondo sa benissimo che «l’arte della guerra consiste in una ben riuscita perpetrazione di porcherie» e che nessuno può dirsi veramente innocente.
La Spagna, un paese verso cui Marshall provava sentimenti contrastanti, deprecando la sciatteria del clero e la violenza insensata delle corride, diviene ne La sposa bella una sorta di versione novecentesca dell’Inghilterra dell’epoca Tudor, dove i sacerdoti sono perseguitati e costretti a celebrare messa clandestinamente. Le sue vie a tratti orwelliane, con i muri imbrattati con stanchi slogan che la gente ormai ignora, sono attraversate dalla medesima ambiguità che caratterizza il cuore di don Arturo, il quale ha in orrore il peccato e vorrebbe fare qualcosa per aiutare la povera gente, ma che si trova paralizzato da un senso di colpa che lo spinge a considerarsi un vile, uno strumento sgangherato e inutile (almeno fino a quando, in una scena tanto brillante quanto spiazzante, verrà rincuorato da un prete amico che sta per essere giustiziato). La miseria diffusa e i bassi istinti che la fanno ovunque da padrone sono l’esito nefasto di quel paradiso in terra promesso dal partito comunista, quest’ultimo una parodia del cattolicesimo con cui condivide i limiti umani ma nessuna delle sue virtù soprannaturali: «Anche gli apostoli, che avevano tutto in comune, ebbero bisogno della Grazia. Ecco perché il sistema non può funzionare».
Il titolo del romanzo, un prestito della descrizione della Chiesa fatta nel Cantico dei cantici, rimanda poi alla questione fondamentale della vocazione sacerdotale. Don Arturo, che continua per tutto il tempo a essere designato così, con la qualifica di prete, anche quando sembra intenzionato a rompere definitivamente con il proprio passato e a darsi completamente a Soledad – uno dei migliori personaggi femminili scaturiti dalla penna di Marshall –, non può fare a meno di interrogarsi costantemente su cosa significhi la fedeltà a un’autorità e cosa sia davvero l’amore per il prossimo, avendo in mente modelli di virtù quali il Santo curato d’Ars. «Una volta che si è prete, lo si rimane per sempre, non è così che dicono?» gli domanda retoricamente il consigliere Botargas, un aguzzino senza scrupoli con il vezzo delle etimologie. Più avanti, lo stesso don Arturo si ritrova a rispondere a una donna: «Indegno, certamente; ma sempre prete: così Dio intende piegare gli ostinati». La guerra, con il conseguente carico di perdite e dolori, sarà allora per il protagonista un’occasione provvidenziale per recuperare il senso di quella chiamata al sacerdozio che aveva ricevuto in gioventù.
Da La sposa bella, la cui versione originale in lingua inglese è impreziosita dalle suggestive traduzioni delle poesie di San Giovanni della Croce firmate dal sudafricano Roy Campbell, è stato tratto l’omonimo film del 1960 diretto da Nunnally Johnson, con Ava Gardner, Dirk Bogarde, Joseph Cotten e Vittorio De Sica nei ruoli principali.
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Immagine di copertina: da sinistra a destra, Mario Soldati, Bruce Marshall, Domenico Porzio, Uberto Quintavalle e, di spalle, Giovanni Comisso (tratta dalla quarta di copertina di B. MARSHALL, Il Vescovo, Longanesi, Milano, 1970).