di Luca Fumagalli
Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire la figura di Tolkien e quella di molti altri scrittori del cattolicesimo britannico, si segnala il saggio delle Edizioni Radio Spada Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo. Link all’acquisto.
«Non era il genere di cose che accadeva di solito in un mondo ordinato, in una Contea pulita». Il fastidio che Tolkien provava per quegli ammiratori che fotografavano, attraverso le finestre, l’interno di casa sua, è descritto da Carpenter invocando la Terra di Mezzo, in particolare la verde regione abitata dagli Hobbit.
In una lettera a Milton Waldman, scritta presumibilmente intorno alla fine del 1951, il professore di Oxford si dilunga sull’origine degli Hobbit e sul luogo in cui essi vivono: verso la metà della Terza Era «appaiono gli Hobbit. La loro origine è sconosciuta (anche a loro stessi) perché sono sfuggiti all’attenzione dei grandi, o dei popoli civilizzati che compilano cronache; loro stessi non ne tenevano, salvo vaghe tradizioni orali, finché migrarono dai bordi di Bosco Atro, in fuga dall’Ombra, vagando verso occidente e giungendo in contatto con gli ultimi residui del regno di Arnor. Il loro insediamento principale, dove tutti gli abitanti sono Hobbit, e dove si mantiene una vita ordinata e civile anche se semplice e rustica, è la Contea, originariamente le fattorie e le foreste del demanio della Corona di Arnor, concesse in feudo: ma il re, autore delle leggi, è da lungo tempo sparito, salvo nel ricordo, quando si inizia a sentir parlare della Contea». In un’altra epistola, datata 1954, Tolkien aggiunge nuovi particolari: «La Contea è in una posizione fra acque e montagne, a una distanza dal mare e a una latitudine che la rendono naturalmente fertile, a prescindere che, come è specificato, era una regione ben coltivata prima che la occupassero [gli Hobbit] (senza dubbio portando molte arti e mestieri più antichi)». Dopo aver ragguagliato il corrispondente sull’indole pacifica della “piccola gente”, Tolkien precisa: «Gli Hobbit non sono una visione utopica, e non vengono proposti come ideale da seguire, né nella loro epoca, né in alcun’altra. Come tutti i popoli, essi e i luoghi dove vivono sono un accidente storico, come gli Elfi ricordano a Frodo, per di più temporaneo nel lungo periodo. Io non sono un riformatore, né un “imbalsamatore”! Non sono un riformatore (attraverso l’esercizio del potere) perché questo sembra portare al Sarumanesimo. Ma anche “imbalsamare” comporta le sue punizioni».
La Contea, che ha parecchi elementi in comune con quell’Inghilterra rurale che lo scrittore ebbe modo di conoscere e amare durante l’infanzia prima che questa venisse distrutta dall’industrializzazione dilagante, per quanto dolce e invitante non è un’Arcadia ideale, un idillio agreste. Anche prima dell’infiltrazione e della corruzione portata da Saruman, aveva le sue pecche. La ristrettezza mentale dei suoi abitanti, la condanna allo scandalo per chi esce dai suoi confini, il disaccordo fra Sackville-Beggins e Ted Sabbioso, non servono solo per l’effetto comico, ma anche per inserire una nota di genuino realismo dal Mondo Primario. Tolkien era perfettamente al corrente del rischio di creare un’utopia nella Terra di Mezzo, un’operazione che avrebbe sicuramente cozzato con il desiderio di dare spessore e verosimiglianza alla narrazione. Difatti il Bene assoluto, esattamente come il Male assoluto, non può esistere nel mondo. “Imbalsamare” è portare avanti il medesimo approccio distorto di chi pretende di soggiogare ogni cosa con l’Anello, perché, in fondo, significa sempre sostituire la volontà di Dio con la propria. Si tratterebbe di un atto di egoismo supremo, miope, pericolosamente distante dalla realtà – quest’ultima dinamica e in costante mutamento – che richiede invece un approccio flessibile, senza per questo buttare a mare quanto di buono si è fatto in precedenza.
La «mezza repubblica, mezza aristocrazia» della Contea ha un Sindaco eletto, ma pare funzionare bene in gran parte senza governo, ogni famiglia si occupa dei propri affari, e la sua forza di polizia ha ben poco da fare. Incarna alla perfezione quell’ “anarchia” ordinata di cui Tolkien parlava in una delle sue lettere. È uno spazio di pace e tranquillità, preservato dalla violenza non per magica virtù, ma per gli umanissimi vizi dei suoi abitanti, pigri, pettegoli e indolenti. Anche se non è perfetta, rimane comunque, secondo le parole di Monda, «una piccola oasi di pace e di natura non ancora incontaminata», oppure «la patria del cuore» di Tolkien (come scrive Gulisano in La Mappa de “Lo Hobbit”). Che il professore di Oxford fosse particolarmente legato alla Contea, lo dimostra pure l’affettuoso rimprovero rivolto nel 1965, via lettera, a Dick Plotz, della Tolkien Society of America, quando lo scrittore inglese dichiarava che avrebbe preferito che il nome dell’associazione fosse La Società della Contea.
Ai suoi curiosi abitanti – «rustici uomini inglesi di piccole dimensioni» – lo stesso Tolkien si paragona in un’epistola del 1958: «In realtà sono un Hobbit in tutto tranne che nella statura. Amo i giardini, gli alberi e le fattorie non meccanizzate; fumo la pipa e amo il buon cibo semplice (non surgelato), e detesto la cucina francese; mi piacciono, e oso perfino indossarli anche in questi giorni cupi, i panciotti ornati. Vado matto per i funghi (raccolti nei campi); ho un senso dell’umorismo molto semplice (che anche i miei critici più entusiasti trovano noioso); vado a letto tardi (quando posso). Non viaggio molto. Amo il Galles (quel che ne rimane, dopo che le miniere, e le ancor più orrende località marine di villeggiatura, hanno fatto del loro peggio), e specialmente la lingua gallese. Tuttavia non vado in Galles da molto tempo (se non attraversandolo per andare in Irlanda). Vado spesso in Irlanda (Eire: Irlanda del Sud) dato che mi piacciono i suoi abitanti (la maggior parte); ma la lingua irlandese la trovo priva di ogni attrattiva».
Gli Hobbit, le uniche creature che, a tutti gli effetti, Tolkien aggiunse al già ricco universo del fantastico, rappresentano tutti gli aspetti del quotidiano che il professore di Oxford amava di più; in un certo senso sono un popolo a parte, protagonisti de Lo Hobbit e de Il Signore degli Anelli ma mai perfettamente integrati nel mondo («Gli Hobbit non si adattano alla Terra di Mezzo» scrive Shippey). È come se nel loro sangue la concretezza di uno spirito pragmatico e il gusto per il sogno trovassero un’inaspettata sintesi, e non è certo casuale il fatto che lo scrittore inglese abbia voluto omaggiarli facendo di Bilbo, Frodo, Sam, Merry e Pipino degli eroi. Scrive a tal proposito Tacconi: «Lo Hobbit è il più piccolo essere della Terra di Mezzo, eletto per adempiere alla missione più alta certamente non per la sua forza, tantomeno per la sua saggezza, ma di certo per la sua umiltà, o forse sarebbe meglio dire “nullità”. Gli Hobbit infatti non sono famosi per essere un popolo di “santi”, nel senso più idealistico e retorico del termine, ma al contrario sono caratterizzati da una peculiare mediocrità. Il loro legame con la terra, con l’ “humus”, esprime esattamente la loro semplicità e piccolezza di spirito, che, lungi dall’essere una virtù evangelica, viene descritta da Tolkien come la piccineria dei provinciali. Queste creature, infatti, vivono sotto terra, nei “buchi Hobbit”, coltivano la terra, la rendono bella, piacevole e accogliente. Pur avendo la statura da bambini, hanno i piedi grandi e pelosi, ben piantati a terra, segno di quel sano realismo che non conosce le astruse ambizioni della “Gente alta”. Potremmo quasi dire che gli Hobbit vengono dalla terra, e questa loro peculiarità ci riporta alla creazione dell’uomo plasmato da Dio con la polvere del suolo».
La Contea pre-meccanizzata rappresenta dunque quel “tradizionalismo” tolkieniano fatto di disdegno per l’ascesa di una cultura consumistica globale e per alcune innovazioni moderne considerate distruttive, come il motore a combustione interna. Nel “Prologo” de Il Signore degli Anelli è scritto: «Ora come allora, [gli Hobbit] non capiscono e non amano macchinari più complessi del soffietto del fabbro, del mulino ad acqua o del telaio a mano, quantunque abilissimi nel maneggiare attrezzi di ogni tipo».
Uno scenario inquietante, che anticipa quanto narrato in “Percorrendo la Contea”, è invece quello descritto da Tolkien quando Sam guarda nello Specchio di Galadriel: «Si accorse che il Vecchio Mulino era scomparso, e che un grande edificio veniva costruito nel punto ove esso si trovava. Una quantità di gente lavorava con alacrità. Accanto s’innalzava un’imponente ciminiera rossa. Del fumo nero offuscava la superficie dello Specchio. “C’è qualche diavoleria al lavoro nella Contea”, disse». La scena lascia poco spazio alle interpretazioni e riecheggia quella critica all’industrializzazione moderna attraverso la macchina che era già nel Dickens di Tempi difficili. La Contea, quando cade sotto il controllo di Saruman, si trasforma in un deserto di fumo e miseria, una metafora geografica dell’uomo informe appendice della Macchina, succube e totalmente aperto alla manipolazione. La scena ricorda pure lo sconforto che Tolkien dovette provare da ragazzo quando lasciò Sarehole – la Contea del Mondo Primario – per trasferirsi nel sobborgo di Moseley: «Affacciandosi alla finestra», scrive Carpenter, «il panorama faceva rimpiangere la compagna dello Warwickshire: tram che si trascinavano per la collina, le facce grigie dei passanti e, in lontananza, le ciminiere della fabbrica Sparkbrook and Small Heath, che svuotavano fumo. Nei ricordi di Ronald la casa di Moseley restò inscindibilmente legata all’aggettivo “terrificante”».
Nonostante ciò, Tolkien non fu in alcun modo un luddista o un tecnofobo. La sua endemica diffidenza per la tecnologia derivava dall’incertezza e dallo smarrimento di fronte alle novità di un figlio del suo tempo. Se, infatti, non aveva un’automobile né elettrodomestici in casa – e odiasse le strade e le ferrovie, sinonimo di rumore, sporco e di distruzione della campagna – in molti casi il professore di Oxford fu disposto e anzi felice d’usufruire delle comodità che la tecnologia era in grado di offrire. Lo dimostra il curioso episodio narrato da Carpenter, quando lo scrittore si imbatté per la prima volta in un registratore: «Non aveva mai incontrato un registratore da vicino, e inizialmente guardò il marchingegno […] con grande sospetto, pronunciando il Padre Nostro in gotico nel microfono per cacciare i diavoli che, eventualmente, dimorassero all’interno. Ma dopo la registrazione […] fu talmente ben impressionato dall’apparecchio che ne acquistò uno per usarlo a casa, e cominciò a divertirsi registrando il suo lavoro su nastri».
A partire da tali indizi, qualcuno, come Patrick Curry o Chris Brawley – quest’ultimo autore di un articolo, The Fading of the World, in cui si sostiene una lettura eco-centrica e anti-razionale de Il Signore degli Anelli – ha tentato di dare una base scientifica a quel culto del Tolkien ecologista che era già degli hippie americani. Del resto anche Peter Jackson ha messo in bocca a Saruman, ne Le Due Torri, parole quali «soggiogheremo il mondo con l’industria» che non hanno riscontro nel capolavoro tolkieniano. Si tratta, però, di una lettura almeno in parte ideologica. Il professore di Oxford apprezzava la natura – «Sono (ovviamente) innamorato delle piante e soprattutto degli alberi, e lo sono sempre stato; e i maltrattamenti che l’uomo infligge loro per me sono altrettanto difficili da sopportare dei maltrattamenti inflitti agli animali» – ma non era un sentimento incondizionato o irrazionale, tanto che nella sua opera si parla anche di creature malvage e pericolose, animali feroci e bestie immonde. Di conseguenza, per trattarlo come un ecologista, sottolineano Mingardi e Stagnaro, bisogna necessariamente disconoscerne il cristianesimo. Più avanti i due saggisti continuano: «Il messaggio di Tolkien non va frainteso: da cattolico, egli avversava il potere dell’uomo sull’uomo, nella speranza che il genere umano sia abbastanza saggio da comprendere come esercitare nel modo più responsabile il potere sulla natura». Ancora: «Tolkien non avrebbe mai appoggiato nessuna battaglia ecologista perché, da cattolico, metteva l’uomo al centro del mondo, in virtù del privilegio che solo l’uomo ricevette nella notte dei tempi: essere creato “a immagine e somiglianza” di Dio, che ha posto la terra al suo servizio. “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra” (Genesi 1:28)».
Pure la stessa Contea, presumibilmente collocata in un tempo remoto dai vaghi tratti medievaleggianti, ha alcuni elementi ascrivibili alla nascita della società moderna. Solo per fare qualche esempio, i sui abitanti coltivano tabacco, fumano l’erba pipa che accendono con i fiammiferi, bevono il tè nel pomeriggio e sono in grado di determinare l’ora esatta. La dimora di Bilbo, nota Shippey in J. R. R. Tolkien autore del secolo, «è di fatto la casa di chi appartiene alla middle class vittoriana della fine del XIX secolo. A parte il fatto che si trova sottoterra e che non ha servitù, la casa è piena di studi, salotti, cantine, dispense, guardaroba, e tutto il resto».
Anche dal punto di vista politico la Contea è modellata – almeno in parte – sulle idee di Tolkien, configurandosi come una terra in cui vige una strana condizione di libertà temperata. Si tratta di uno stato di diritto, di una comunità retta dall’autogoverno, dove non esistono istituzioni che interferiscono con il diritto di proprietà delle persone (all’opposto dei raccoglitori e degli spartitori che più tardi prenderanno il controllo dell’economia locale). Per Witt e Richards «la Contea impone tasse più basse, ha un governo più limitato e un mercato più aperto delle cosiddette società capitalistiche di oggi. […] La [sua] organizzazione è coerente con la preferenza espressa da Tolkien per un governo di minima ingerenza nella vita dei cittadini e di massima difesa delle loro libertà fondamentali».
Tale idea sembra essere indirettamente ribadita dal professore di Oxford in una lettera del 1956, in cui, giusto dopo aver parlato delle esperienze che gli hanno ispirato lo scenario della Contea, prende posizione contro il socialismo: «Non sono in alcun modo un socialista, dato che sono contrario alla pianificazione (come dovrebbe essere evidente) soprattutto perché i pianificatori, quando arrivano al potere, diventano tanto malvagi, ma non potrei dire che qui abbiamo dovuto soffrire la malizia di Sharkey e dei suoi banditi. Anche se lo spirito di Isengard, se non di Mordor, ovviamente salta sempre fuori. L’attuale progetto di distruggere Oxford per fare spazio alle automobili ne è l’esempio. Anche se il nostro avversario principale è membro di un governo “Tory”. Ma se ne trovano esempi ovunque in questi giorni». Altrove, a proposito dell’organizzazione universitaria, Tolkien giunge a conclusioni simili: «Non è solo una questione della degenerazione della genuina curiosità ed entusiasmo in un’economia di piano, sotto la quale così tanto tempo destinato alla ricerca viene raccolto entro maschere più o meno standardizzate e impiegato per produrre zuppe di dimensioni e forma regolati dal nostro stesso ricettario. Anche se questa fosse una descrizione dettagliata del sistema, io esiterei ad accusare chicchessia di pianificarlo con saggezza, o di approvarlo in toto ora che lo abbiamo. È cresciuto, in parte per caso, in parte per l’accumulazione di espedienti temporanei».
Non solo la pianificazione non può funzionare, essa è, scrivono Mingardi e Stagnaro, «una “rivolta contro la natura” (così Murray Rothbard dirà dell’egualitarismo), per mezzo di essa gli uomini tentano di prendere il posto dello stesso Dio. Quando essi si sentono in grado di controllare completamente il proprio destino, diventano tanto presuntuosi da “uccidere Dio”».
L’antidoto a questa tendenza, ancora una volta, è negli Hobbit. Così ricordava Tolkien al figlio Christopher il 6 maggio 1944 a proposito delle privazioni che comporta la vita militare: «Comunque è quasi inevitabile, dato che gli esseri umani sono ciò che sono, e l’unica cura (a parte una Conversione universale) sarebbe di non avere guerre, né pianificazione, organizzazione o irreggimentazione. […] Ma tutte le cose progettate in grande danno questa sensazione al rospo che finisce sotto l’aratro, anche se in un quadro più generale funzionano e fanno il loro lavoro. Un lavoro in fin dei conti malvagio. […] Bene, eccoti qui: un Hobbit fra gli Urukhai. Conserva la tua hobbitudine nel cuore, e pensa che tutte le storie sembrano così quando ci sei dentro. Tu sei dentro una storia molto grande!».
Vanno però precisati un paio di aspetti. Quando Witt e Richards parlano di “stato minimo” a proposito del regime politico-sociale della Contea, e Mingardi e Stagnaro, parafrasando Thomas Jefferson, si spingono oltre fino a riconoscere al professore di Oxford «d’aver compreso come ogni forma di governo sia di per sé distruttiva», non bisogna dimenticare che Bilbo, nella sua avventura con Thorin Scudodiquercia e con gli altri nani, è sempre tenuto sotto sorveglianza, seppur a distanza, da Gandalf, un potere “altro”, esterno alla compagnia.
Ancora più interessante, le leggi della Contea non sono scritte a tavolino da liberi cittadini con a capo un presidente, ma derivano dagli antichi sovrani. Nel “Prologo” de Il Signore degli Anelli è infatti scritto: gli Hobbit «avevano conservato l’antica tradizione che voleva il re a Fornost, o Roccanorda, come preferivano chiamare quel villaggio a nord della Contea. Ma da quasi mille anni non vi era più re, e le rovine di Roccanorda erano invase dall’erba. Ciò nonostante gli Hobbit continuavano a dire, parlando dei popoli selvaggi e di esseri crudeli (i Troll, per esempio), che non avevano mai conosciuto il re. Attribuivano infatti al re dei tempi antichi tutte le leggi fondamentali, e generalmente le osservavano di loro spontanea iniziativa, considerandole regole antiche e giuste». Parimenti, il capolavoro tolkieniano si chiude con un’epifania del trionfo del bene comune, simboleggiato dalla riconquista della Contea da parte degli Hobbit, non prima però del ritorno del legittimo sovrano sul trono di Gondor.
A partire da queste considerazioni, diversi studiosi hanno notato una possibile sovrapposizione tra la Contea e la cosiddetta “Little England”, quel piccolo regno inglese, valorizzatore delle specificità, che rappresentava l’ideale di Tolkien. Di contro ai sostenitori dell’imperialismo britannico, lo scrittore professava un genuino patriottismo dal vago retrogusto strapaesano, valorizzatore del genius loci e avversario di quell’omologazione che è anche una delle conseguenze del regno di Sauron. Tale ideale – che si ricollega pure alla “Merry England” di stampo medievale, una terra felice nel suo isolamento dal resto del continente europeo – non venne meno neanche durante la Seconda guerra mondiale, quando all’orizzonte si profilava lo spettro di un nuovo ordine globale, questa volta made in USA. Così scriveva Tolkien, con piglio ironico, in una lettera del 1943: «Più le cose diventano grandi, più il mondo diventa piccolo e monotono o piatto. Si appresta a diventare tutto una piccola e provinciale periferia inaridita. Quando avranno introdotto gli impianti igienici, le tecniche motivazionali, il femminismo e la produzione di massa americani in tutto il Vicino Oriente, in Medio Oriente, in Estremo Oriente, nell’URRS, nella Pampa, nel Gran Chaco, nel Bacino del Danubio, in Africa Equatoriale, in Mumbolandia citeriore, ulteriore e interiore, nella Gondwana, a Lhasa e nei villaggi del profondo Berkshire, quanto saremo felici. A ogni modo dovrebbe ridurre i viaggi. Non ci sarà più nessun luogo dove andare. Per questo la gente ci andrà (ritengo) più velocemente. Il Col. Knox dice che un ottavo della popolazione mondiale parla inglese, e che si tratta del maggior gruppo linguistico. Se è vero è una vergogna, dico io. Che la maledizione di Babele colpisca le loro lingue sinché possano dire solo “bee bee”. Sarebbe quasi lo stesso. Penso che dovrò rifiutare di parlare se non in merciano antico».
Se ne Il Signore degli anelli la descrizione della Contea è quella di una terra abitata da gente laboriosa, contadini e piccoli proprietari, ne Lo Hobbit il valore intrinseco dell’artigianato tradizionale è contrastato dall’avanzata del mercante e dello speculatore, di coloro, cioè, che sono solamente capaci di accumulare e che sono privi di qualunque abilità creativa (quando il drago Smaug attacca la città di Pontelungo, l’avido governatore – abile negli affari – diserta la scontro, mentre i bravi cittadini si armano per difendere le loro case).
L’opposizione di Tolkien al mondo moderno e a quegli stati nazionali ancora più accentratori e sommersi dalla burocrazia dei precedenti, pare essere in linea con le idee professate dai connazionali G. K. Chesterton e Hilaire Belloc. I due scrittori furono tra i fondatori del distributismo, un movimento politico-economico, alternativo al capitalismo e al comunismo, che si basava sulla dottrina sociale cattolica così come era stata formulata nelle encicliche Rerum Novarum di Leone XIII e Quadragesimo Anno di Pio XI, e che teorizzava la ripartizione dei mezzi di produzione nel modo più ampio possibile fra la popolazione. Aggiunge Caldecott: «I distributisti vedevano la famiglia come l’unica solida base della società civile e di ogni civilizzazione sostenibile. Credevano in una società di famiglie e sospettavano di una forma di governo top-down. Il potere, sostenevano, avrebbe dovuto essere ridotto al livello più basso compatibile con un ragionevole grado di ordine (il principio della sussidiarietà). L’ordine sociale deriva dai legami naturali dell’amicizia, della cooperazione e della fedeltà familiare, all’interno del contesto di una cultura locale con un forte senso del giusto e dello sbagliato».
Per Charles A. Coulombe, autore dell’articolo The Lord of the Ring: A Catholic View, in un certo senso la Contea tolkieniana è la realizzazione dell’ideale distributista, è il ritratto di una società concepita come un tutto organico, divisi in classi ma senza conflitti tra esse, con una struttura comunale, la stessa società ideale che ha caratterizzato il pensiero cattolico sin dai tempi dell’Impero romano. Hren, facendo riferimento a San Tommaso, secondo il quale il commercio, oltre a essere sintomo di debolezza del sistema, è anche latore di vari vizi – cupidigia in primis – scrive: «Il legendarium di Tolkien è capace di incitare il nostro sviluppo – all’interno di comunità più piccole e di gruppi – delle virtù che si conformano al primato del bene comune, siano esse riconducibili a qualche forma di economia di dono o alla dimostrazione di misericordia». Anche il regno di Gondor, come lascia intuire il professore di Oxford in una delle sue lettere, è un ottimo esempio di pacifica autosufficienza: «Possiede abbastanza fattorie e feudi con acqua e strade di collegamento per provvedere alla sua popolazione; e chiaramente ha molte industrie».
Allo stesso modo, sul tema della sussidiarietà, il “neo-distributista” E. F. Schumacher, nel famosissimo libro Piccolo è bello, invita a riflettere su come l’assorbimento da parte del livello più alto delle funzioni che sono appannaggio di quello più basso rischi alla lunga di far crollare il sistema, basato sulla fedeltà dell’inferiore nei confronti del superiore.
Nonostante Tolkien non abbia mai fatto riferimento ai distributisti né si schierò apertamente con la loro causa, è comunque ingiusto, come invece fanno Witt e Richards, negare una possibile identità di vedute, anche parziale (lo sottolinea soprattutto la Milbank nel volume Chesterton and Tolkien as Theologians). Tant’è che Pearce, in Catholic Literary Giants, nota pure una certa somiglianza tra il William Cobbett descritto da Chesterton – difensore dell’Inghilterra rurale dalla prima industrializzazione – e lo stesso Tolkien: «Quello che lui vedeva non era un Eden che non poteva esistere, ma un Inferno che poteva esistere, e che addirittura esisteva. Ciò che vedeva era il perire dell’autosufficienza inglese, la crescita delle città che prosciugava e desertificava la campagna, […] i trionfi delle macchine sugli uomini».
La miglior esposizione del proprio credo distributista – o simil-distributista – il professore di Oxford la affida ai pensieri di Sam Gamgee, futuro Sindaco della Contea: «Il piccolo giardino di un libero giardiniere era tutto ciò di cui aveva bisogno, e non un giardino ingigantito alle dimensioni di un reame; aveva bisogno di adoperare le proprie mani, e non di comandare le mani altrui».
Fonte: L. FUMAGALLI, La società della Contea. Appunti sulla filosofia politica di J. R. R. Tolkien, NovaEuropa Edizioni, 2019.
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Fonte immagine: http://images6.fanpop.com/image/photos/34000000/John-Howe-s-illustration-jrr-tolkien-34059644-1462-930.jpg