L’Avv. Guido Ferro Canale dopo essere intervenuto sulle pagine di Radio Spada in relazione ai temi:

ora torna più approfonditamente sui problemi del “conclavismo” di ritorno. Buona lettura!


di Guido Ferro Canale


Il lettore, ormai, saprà senz’altro che il più recente tentativo di eleggere un Papa al di fuori della linea successoria che oggi mette capo a Jorge Mario Bergoglio – tenendo ferma, per la prima volta, la legittimità dei Pontefici post-conciliari fino a Benedetto XVI incluso – è sfociato, in maniera del tutto inattesa almeno per gli osservatori esterni, nell’elezione unanime dello stesso Bergoglio. La singolare scelta trova, in verità, precedenti specifici al termine dei due scismi d’Occidente: nel 1428, quando l’ultimo pretendente della linea avignonese, Clemente VIII, ha rinunciato e i suoi Cardinali, unanimi anche allora, hanno eletto Martino V (1); nel 1449, allorché il conciliabolo di Basilea, prima di sciogliersi, ha fatto altrettanto con Niccolò V (2). Ma qui la situazione è diversa, il gesto non sembra destinato a porre termine alla questione “Benevacantista” e, in ogni caso, per sua natura è irrilevante nel lungo periodo, dato che si risolve nella semplice aggiunta di un nuovo titolo di legittimità al pretendente più quotato già in lizza. Al momento, quindi, il solo effetto concreto sembra il ritorno di attualità di un argomento sempreverde come la possibilità (o impossibilità) di eleggere il Papa in situazioni straordinarie; sembra il caso di approfittarne per fare il punto in materia, se non altro perché le relative considerazioni torneranno di sicuro utili, per non dire necessarie, anche in futuro.

Per ragioni di spazio, tuttavia, rimanderò ad altra sede la trattazione del dubbio più importante, se sia valida o meno l’elezione di un eretico, che richiede una disamina assai articolata; qui mi concentrerò, nell’ordine, sul problema del Papa dubbio, sulla possibilità o impossibilità che un occupante non legittimo della Sede Apostolica benefici di una qualche forma di supplenza o sanatoria, sull’eventualità che scompaia l’intero Collegio Cardinalizio e – infine ma non da ultimo – su quali violazioni della disciplina attuale comporterebbero, se commesse e dimostrate, la nullità dell’elezione.   

1. Il Papa dubbio ossia dubbiamente eletto

Tutta la controversia intorno alla validità della rinuncia di Benedetto XVI ha l’indubbio pregio di aver riproposto all’attenzione generale, oltre all’importanza del diritto canonico, il particolare tema del Papa dubbio, quello cioè della cui legittima elezione si discuta. Negli ultimi secoli, infatti, esso si è ridotto praticamente ad un caso di scuola, perché la generalità degli autori ha abbracciato l’opinione del Suárez, secondo cui è di Fede che l’uomo oggi universalmente riconosciuto come Papa lo sia veramente: il Papa è la regola vivente della Fede e non può la Chiesa intera sbagliare nel riconoscere chi Egli sia; altrimenti, a tacer d’altro, non vi sarebbe mai certezza che le definizioni dogmatiche provengano dalla persona legittimata a renderle (3).

Ho già detto in più occasioni che questa tesi, per quanto rispettabile, mi sembra falsa (e tengo a precisare che, pur essendo molto comune, non è de Fide) (4).Brevemente espongo le mie ragioni principali (5):

  1. nella generalità degli affari di questo mondo, anche ecclesiastici, è sufficiente la certezza morale; l’accettazione universale basta senza dubbio a fondarla;
  2. in tanto può esser necessaria una certezza assoluta sulla legittimità del Papa, in quanto un asserto di chi si pone come tale richieda l’assenso di Fede; ma se lo richiede come espressione del Magistero ordinario e universale, allora consiste nella riproposizione di ciò che già altri Papi e Vescovi hanno insegnato, quindi non è dirimente che Tizio, hic et nunc, sia Papa legittimo; il problema, quindi, resta circoscritto alle definizioni dogmatiche;
  3. in tal caso, l’esigenza rilevata dal Dottore Esimio non si può sottovalutare; tuttavia, prima che Tizio definisca e dinanzi agli atti preparatori, basterà ancora al fedele la certezza morale; dopo, invece e senza dubbio, subentrerà una certezza di Fede (fides ecclesiastica, nel linguaggio dei manuali), perché la legittimità dell’autore della definizione si convertirà in fatto dogmatico, sia che la definizione sia accettata pacificamente da tutti (come per l’Immacolata Concezione o l’Assunzione) sia che, ponendo termine ad una controversia dottrinale, sia di fatto respinta dalla parte soccombente (v., da ultimo, lo scisma dei “vecchi cattolici”).

Detto in altri termini: una certezza infallibile antecedente alla definizione non è necessaria, o meglio, basta che sia puramente negativa (assenza di dubbi o contestazioni). Ma siccome la definizione dogmatica avviene per una grazia speciale di Dio alla Chiesa, Egli non la ispirerà che ad un Pontefice legittimo: questa è appunto la certezza che cercavamo. Senza dubbio, potrà accadere che pretendenti al Papato cerchino di legittimarsi definendo questa o quella dottrina, ma in tal caso a) o la loro legittimità sarà già controversa e pubblica la ragione del dubbio (arg. a pari dal conciliabolo di Basilea, che già era tale quando volle pronunciarsi in favore dell’Immacolata Concezione), o quantomeno b) verrà definito qualcosa di talmente implausibile da rendere prima facie ovvia l’illegittimità stessa. Di fatto, la storia degli antipapi più recenti vede verificarsi entrambe le opzioni: vedasi Palmar de Troya, dove alla pretesa di una legittimità (se così si può chiamare) derivante da investitura celeste diretta si è poi unito il preteso dogma secondo cui, nel Battesimo, in ciascuno di noi verrebbe infusa una goccia del sangue della Madonna, che produrrebbe la remissione del peccato originale e – indebolita dal peccato veniale, distrutta dal mortale – verrebbe ripristinata ogni volta dalla Confessione. Serve forse che dica che questa dottrina è del tutto inaudita e che non c’è la benché minima possibilità che faccia parte della Rivelazione trasmessa dagli Apostoli? Quest’evidente falsità, allora, non può che trasformarsi in prova dell’illegittimità di chi se n’è fatto autore.

Chiarito, quindi, che il dubbio è ammesso anche quando l’eletto è stato universalmente accettato come legittimo (perché non sono state mosse confutazioni pubbliche nell’immediato), sarà tuttavia il caso di non sottovalutare gli effetti pratici o “politici” dell’accettazione stessa. Prendiamo il caso del Grande Scisma: Urbano VI è stato eletto tra il 7 e il 9 aprile 1378, in mezzo al tumulto della popolazione di Roma per avere un Papa “romano o almeno italiano” (fatto in sé ammesso da tutti); il 20 settembre, tutti i Cardinali, a parte uno morto nel frattempo, dopo aver dichiarato di aver agito per timore grave e che la Sede era tuttora vacante, gli hanno contrapposto Roberto da Ginevra, alias Clemente VII. In quelle circostanze, il dubbio era più che lecito; e tuttavia, qualche mese di accettazione indiscussa bastò ad Urbano come sostegno “psicologico” di una legittimità altrimenti assai traballante, tanto che un’obbedienza “urbanista” non venne mai meno nei quarant’anni successivi. 

Si può ben capire, allora, perché il Concilio di Costanza (Sess. XXXIX, 9 ottobre 1417), mentre poneva fine al Grande Scisma, abbia decretato bensì la nullità dell’elezione del Papa avvenuta per timore grave “e che non possa essere ratificata o approvata in forza di un consenso susseguente, anche se venisse a cessare il timore predetto”, ma anche che “Non sia lecito, tuttavia, ai cardinali procedere ad altra elezione, se colui che è stato eletto non rinunci o non muoia, fino a che il concilio generale non si sia pronunziato su quella elezione”; anzi, la contravvenzione al divieto è fulminata di nullità con privazione di ogni diritto per il secondo eletto ed i suoi elettori (6).

Almeno fino al 31 dicembre 2022, la contesa sulla validità della rinuncia di Benedetto XVI configurava appunto un caso di Papa dubbio, ossia di dubbio dei fedeli tra due (o più) Papi possibili; non mi pare, tuttavia, che i fautori della nullità, pur invocando a volte un giudizio autoritativo sul punto, si siano mai rifatti all’apposita disciplina e soprattutto al principio informatore sottostante, che vieta di agire sulla scorta della propria certezza di partito. Beninteso, quando il dubbio tra i due Papi nasce dalla rinuncia del primo, ceteris paribus questi dovrebbe essere preferito tra i due, perché è sicuro che sia diventato a suo tempo Pontefice, ma dubbio se abbia smesso di esserlo; però il principio riflesso non dispensa sic et simpliciter dalla soluzione del dubbio stesso. E qui, secondo me, sta il primo e principale scoglio sulla rotta di ogni “anti-elezione” pontificia: il principio Papa dubius, Papa nullus, che peraltro è stato formulato da teologi e canonisti proprio in seguito ai decreti di Costanza, non va inteso come licenza di provvedere alla Sede vacante, bensì come un’assimilazione che non nega affatto che un Papa legittimo vi possa essere, però frattanto, in via cautelativa, applica la massima Sede vacante, nihil innovetur. Un po’ come quando, nella contesa sulla proprietà di un bene, questo viene intanto posto sotto sequestro e sottratto alla disponibilità di entrambi. 

2. Sanatorie, supplenze e successioni per i Papi illegittimi

Un altro problema di notevole spessore riguarda le conseguenze dell’insediamento di un Papa illegittimo: se in qualche modo l’illegittimità sia sanabile, se possa godere di giurisdizione almeno supplita, o se sia comunque possibile una successione legittima senza ricorrere a rimedi straordinari come il Concilio imperfetto o l’elezione da parte di un soggetto diverso dal Collegio Cardinalizio.

In proposito, bisogna osservare che oggi la situazione è nettamente diversa rispetto ai tempi antichi: finché l’elezione del Papa coinvolgeva l’intera Chiesa di Roma, era possibile sostenere che, se di fatto il clero e il popolo accettavano la legittimità di Tizio e comunicavano in sacris con lui, questo comportamento aveva valore c.d. concludente cioè equivaleva ad una formale elezione, casomai egli fosse stato sprovvisto, fino ad allora, di un titolo valido (7). In questo modo si considera sanata, ad es., l’illegittimità iniziale di Vigilio, insediato quando il suo predecessore Silverio, “deposto” dall’imperatore ma non rinunziatario, ancora viveva.

A mano a mano che il diritto di elezione è stato ristretto, però, e concentrato in capo ai Cardinali, si è anche precisato che esso non può essere esercitato in qualsiasi modo – dunque anche per facta concludentia – ma solo seguendo una determinata procedura, a pena di invalidità, e che né come singoli né come Collegio essi hanno il potere di alterare la relativa disciplina: questa era, a mio avviso, la conclusione legalmente corretta a partire almeno dalla “Ne Romani” di Clemente V, cosicché l’accettazione universale sanante restava possibile soltanto per i vizi del consenso. Fu infatti invocata in favore di Urbano VI dopo la già ricordata elezione del 1378 e, come si è detto, esclusa in radice per il futuro dal Concilio di Costanza, in caso di timore grave, con una disposizione rimasta senz’altro in vigore almeno fino al Codice del 1917 (ma, a mio parere, non abrogata neppure in seguito) (8). Tuttavia, l’elezione di Clemente VII Medici, nel 1523, avvenne mediante una sorta di comportamento concludente, la adoratio pubblica, che fu ritenuto ammissibile e praticato anche in seguito: in sostanza, la fazione che riteneva di avere i numeri entrava nella Cappella Paolina, allora luogo deputato all’elezione, intronizzava il proprio candidato e cominciava a prestagli quella adoratio, cioè ossequio come Papa, che il cerimoniale prevedeva solo al termine delle procedure codificate e dell’accettazione. Un simile incentivo al “colpo di mano”, però, non poteva non rivelarsi pernicioso e, infatti, diede più volte luogo a gravi disordini; infine, Gregorio XV risolse di abolirlo e, almeno dal momento in cui è entrata in vigore la “Aeterni Patris”, nessun’accettazione ex post può più sanare un’elezione avvenuta secondo una procedura diversa da quella codificata (9).

Neppure può ipotizzarsi un simile rimedio in caso di errore circa il momento di vacanza della Sede Apostolica: ciò infatti, a tacer d’altro, implica che alcuni degli aventi diritto non siano convocati (10), o che lo siano soggetti che, nominati in tesi da un antipapa, potrebbero in realtà essere sprovvisti dell’elettorato attivo… ed in entrambi i casi si porrebbero problemi di nullità (cfr. can. 166 CIC 1983).

Appurato, quindi, che in sostanza l’unico modo per sanare un’illegittima occupazione della Sede Apostolica sarebbe un’elezione regolare da parte degli aventi diritto, senza che partecipi al voto neppure un solo soggetto estraneo al corpo elettorale, ci si può chiedere se anche nel caso del Papa valga la regola della supplenza di giurisdizione nei due casi di errore comune (Tizio non è vero Papa, ma la maggior parte dei fedeli lo ritiene tale) o di dubbio probabile. Il problema è stato discusso soprattutto rispetto al caso di elezione affetta da simonia occulta, che sarebbe stata nulla secondo la Costituzione di Giulio II: S. Alfonso propugnava la soluzione affermativa, giungendo ad affermare che la supplenza per errore comune si sarebbe estesa perfino alle definizioni infallibili (11); Wernz-Vidal, opinando peraltro che la simonia occulta non comportasse la nullità di cui alla “Cum tam divino”, escludevano in radice la possibilità stessa della supplenza, perché la potestà di governo è conferita al Papa da Cristo e la Chiesa non la possiede in modo tale da poterla supplire (12). 

La mia opinione, per quel che può valere, è favorevole: la supplenza, infatti, non va confusa con una sanatoria, non elimina affatto il difetto del titolo, bensì rende valido il singolo atto, volta per volta; la Chiesa – cioè la legge – può benissimo ordinare alla generalità dei fedeli di considerar validi gli atti del falso Papa, allo stesso modo e per le stesse ragioni per cui è stata introdotta la supplenza per errore comune o dubbio probabile (13).

Vanno notate alcune importantissime particolarità dell’istituto in parola: siccome anche in questo caso particolare il potere di governo è attribuito per il bene comune, si richiede l’errore della maggioranza degli interessati, e non di pochi, ma per converso il potere sussiste e si applica anche a quanti conoscano il difetto di titolo e non versino in errore; similmente, per il dubbio probabile, dev’esserci una probabilità vera, ma una volta che ci sia non importa che il suddito o lo stesso autore dell’atto siano convinti che la giurisdizione ordinaria o delegata non vi sia, purché quest’ultimo intenda comunque porre in essere un atto giuridico.

Peraltro, pur ammessa la supplenza, il Papa illegittimo non potrebbe impedire il giudizio sul proprio difetto di titolo (vuoi perché la supplenza in tal caso non opera, dato che ha lo scopo di evitare conseguenze dannose per i fedeli, non per il titolare apparente; vuoi perché comunque ad un ordine nocivo è lecito o anche doveroso resistere); anzi, la divulgazione del problema potrebbe, in tesi, far venire meno quell’adesione maggioritaria che sostanzia l’errore comune (14). Infine, altri suoi provvedimenti ingiusti potrebbero essere sempre contestati nei modi ordinari.

È discusso se la supplenza operi anche rispetto agli atti di Magistero (15); la risposta, tuttavia, è senz’altro negativa almeno a termini del CIC 1983, can. 144, che circoscrive espressamente l’istituto alla sola potestà di governo amministrativa. Ma siccome in quest’ultima rientrano tutte le nomina, ivi comprese quelle di Vescovi e Cardinali, la pur sensibile riduzione cambia poco ai nostri fini: ammessa la supplenza, il Papa illegittimo crea comunque Porporati validi, il che significa che, in caso di sua morte o valida rinuncia, potrà ristabilirsi una legittimità indiscussa.

Ma, a mio parere, ciò vale perfino se si ritiene che essa non si applichi agli atti papali.

Supposto, infatti, che comunque vi sia un errore comune o almeno un dubbio probabile intorno alla legittimità di chi invece (in tesi) Papa non era, evidentemente avverrà lo stesso riguardo ai Cardinali creati da lui; e ai loro atti la supplenza si applica di sicuro. Se perciò, di fatto, prendono parte al Conclave, i loro voti – con cui essi concorrono all’esercizio di una funzione tipica della potestà di governo amministrativa, la provvista degli uffici vacanti – debbono essere considerati validi ad ogni effetto, né l’elezione potrà essere annullata perché vi ha preso parte qualcuno che non era legittimo membro del corpo elettorale (16). Si potrebbe perfino arrivare ad avere un Collegio interamente composto di “elettori putativi”, a patto che perdurino l’errore comune e/o il dubbio probabile.

3. Un corpo elettorale di riserva?  

Ci si è chiesti, naturalmente, cosa accadrebbe se dovesse venir meno l’intero Collegio cardinalizio: il dubbio precede di diversi secoli i problemi attuali e, anche se a suo tempo è stato discusso come tranquillo problema di scuola, non vi è unanimità tra gli autori. Per quanto ho appena detto, è chiaro che si tratta di un caso quasi impossibile, perché anche i Cardinali dubbi eleggerebbero validamente (e avrebbero, quindi, il diritto e il dovere di procedere); vale tuttavia la pena di riferire che le opinioni che si contendono il campo sono tre, perché secondo alcuni, venuto meno il Collegio, l’elezione del Papa spetterebbe ai canonici lateranensi, secondo altri si devolverebbe ai Pastori di grado inferiore e quindi al Concilio imperfetto, mentre la terza opinione afferma che, siccome il caso non è mai stato disciplinato, limitatamente ad esso debbono considerarsi tuttora in vigore le norme precedenti, come dire l’elezione “a clero e popolo” (17).

Partiamo dalla premessa che non esistono disposizioni inderogabili in proposito: il diritto divino ha lasciato al pieno arbitrio dei Papi il modo di elezione dei loro successori, tanto che, secondo l’opinione più comune, essi potrebbero procedere anche per designazione diretta; né vi sono particolari riserve dell’elettorato attivo in favore della Chiesa romana, soprattutto visto che, secondo diversi teologi, il Papato potrebbe essere trasferito altrove non solo de facto, ma anche de iure, cioè legalmente separato dalla titolarità della Diocesi di Roma.

Orbene, è subito evidente che il diritto positivo non regola il caso in cui vengano meno tutti i Cardinali. In presenza di simili lacune, ha forza di legge (suppletiva) soltanto l’opinione comune e costante dei giuristi, che in questo caso manca. Delle tre tesi in campo, osservo che la prima mi sembra destituita di ogni probabilità: mai il Papa è stato eletto del Capitolo della sua Cattedrale e, in più, simili elezioni sono ormai eccezionali in tutta la Chiesa latina. La seconda ha trovato validi sostenitori (a quelli ricordati in quest’articolo si può aggiungere il Billot), ma dipende in ultima analisi da due questioni aperte: se il Papa sia in primo luogo Papa, e solo secondariamente Vescovo di Roma, e se almeno in astratto i due uffici siano separabili. Non si può comunque sostenere che esista una qualsiasi competenza di diritto divino e, come abbiamo visto, mancano sia una legge umana espressa sia una suppletiva, derivante dal consenso degli autori. Non resta, allora, che rifarsi alla terza opinione, l’unica che possa invocare in proprio favore un sicuro fondamento positivo: la legge anteriore, che si presume non abrogata quando la nuova non regoli un qualche caso (18).

Può essere il caso di ribadire, però, che tale disciplina non conferiva affatto ai laici un diritto di voto, ma semmai un qualcerto diritto di veto, nel senso che essi potevano muovere obiezioni contro l’idoneità dell’eletto e che un rifiuto generale della sua persona (ancorché, in ipotesi, ingiustificato) avrebbe impedito il conferimento dell’ufficio, per evidenti ragioni di opportunità, secondo la massima Nullus invitis detur Episcopus; viceversa, il generale consenso fungeva da validissima conferma della buona reputazione di costui. Ho già illustrato la normativa nel mio precedente articolo in argomento; vorrei ora aggiungere l’ultimo esempio storico di ricorso ad essa, l’elezione antipapale del 1328. Per quanto influenzato dalle teorie “democratiche” di Marsilio da Padova, infatti, Ludovico il Bavaro sapeva bene che solo il rispetto di una procedura tradizionale avrebbe potuto conferire almeno una parvenza di legittimità all’antipapa che intendeva contrapporre a Giovanni XXII; ecco, quindi, che l’elezione, “Avvenuta formalmente su indicazione di un collegio di 13 delegati del clero romano, sollecitati dall’imperatore”, fu seguita dalla presentazione ufficiale al popolo dell’eletto – il francescano Pietro Rinalducci da Corvara, pare rinomato come predicatore – e da un’accettazione in forma rituale, giacché “il vescovo di Castello, Iacopo Alberti da Prato, interpellò per tre volte la folla, che rispose acclamando il nuovo pontefice.” (19).

“Clero romano”, naturalmente, è tutto e solo quello della Diocesi di Roma: dalla Provincia ecclesiastica dell’Urbe arrivavano soltanto i Vescovi delle Diocesi suburbicarie, che dovevano esaminare la persona dell’eletto (20). Ma siccome essi oggi corrispondono ai Cardinali vescovi, nell’ipotesi in discorso il loro intervento sarebbe impossibile; vi si dovrebbe supplire, probabilmente, con una qualche forma di rappresentanza dell’Episcopato in genere (21).

4 – Violazioni procedurali e nullità dell’elezione            

Supposto, invece, che all’elezione proceda un Collegio cardinalizio o presunto tale e che si seguano le norme emanate da Giovanni Paolo II, è sorto il dubbio – particolarmente proprio con l’elezione di Bergoglio – di quali infrazioni possano comportare la nullità degli atti compiuti: le leggi anteriori, infatti, riferivano chiaramente la clausola irritante al mancato rispetto dei requisiti di validità dettati per ciascuna delle tre procedure, o alla scelta di una procedura non prevista; ma la “Universi Dominici Gregis” (UDG), lasciata in vita solo quella per scrutinium, al n. 76 si esprime in termini più ampi: “Quodsi electio aliter celebrata fuerit, quam haec Constitutio statuit, aut non servatis condicionibus pariter hic praescriptis, electio eo ipso est nulla et invalida absque ulla declaratione, ideoque electo nullum ius tribuit.”. Inoltre, è stata emanata in vigenza del can. 38 CIC, che dichiara privo di effetto ogni atto amministrativo contrario alla legge e non munito di apposita clausola di deroga (22). Parrebbe, quindi, di dover concludere che ogni violazione della normativa elettorale renda nulla l’elezione stessa; e va aggiunto che i commentatori offrono ben pochi spunti al riguardo (23).

Il can. 38, in realtà, ha una portata molto più ristretta di quanto si potrebbe pensare, sia perché gli atti si presumono sempre legittimi e quindi efficaci (dimodoché il ricorso gerarchico, cann. 1732-9, è strutturato come un giudizio di annullamento, dove la loro sospensione deve essere chiesta ed ordinata), sia perché la giurisprudenza della Segnatura Apostolica ritiene comunque che la disciplina generale degli atti amministrativi abbia un effetto invalidante solo se previsto espressamente (così ritenendo validi, per esempio, decreti non motivati, ex can. 51, o non preceduti dall’ascolto degli interessati, ex can. 50, o perfino nomine orali, in spregio del can. 37) (24). In ogni caso, esso non si applica alle elezioni: come ho spiegato altrove, i cann. 35 sgg. riguardano i soli provvedimenti amministrativi, quindi gli atti che concludono un procedimento; ma l’elezione è sempre un atto preparatorio, perché dev’essere seguita o dalla conferma dell’autorità superiore (che sarà appunto un provvedimento, nella forma del decreto) oppure almeno dall’accettazione dell’eletto (nel qual caso il decreto manca). Non a caso, i cann. 165 sgg. CIC / 947 sgg. CCEO dettano una disciplina speciale per le ipotesi di invalidità delle operazioni elettorali, mostrando chiaramente che solo alcune violazioni debbono essere invalidanti; questa stessa logica è sottesa anche alla UDG, che anzi, semmai, si preoccupa di circoscrivere ancor più le fattispecie di nullità.

Dato questo presupposto, riesaminiamo il testo di UDG e vediamo a quali norme si possa attribuire l’effetto invalidante e per quali, invece, esso vada escluso. Concesso, infatti, che la clausola si riferisce all’intera Costituzione e non al solo Capo dedicato all’elezione per scrutinium (25), da ciò non segue che ogni violazione abbia un effetto così grave: basti pensare ai nn. 88 sgg., che riguardano adempimenti successivi non solo all’elezione, ma alla stessa accettazione, e a tutte le norme su attività della Curia in Sede vacante (nn. 14-26) ed esequie del Romano Pontefice (nn. 27-32).

Il discorso cambia rispetto ai nn. 1-6: se immaginiamo che un qualunque potere esterno provi ad usurpare le attribuzioni del Collegio Cardinalizio (cfr. nn. 33-4) o, forse più realisticamente, che quest’ultimo attenti modifiche alla disciplina elettorale, putacaso ripristinando qualcosa di simile alla vecchia adoratio (26), ciò integrerebbe l’ipotesi della electio aliter celebrata e, perciò, della nullità ai sensi del n. 76. Delicatissimo e, a mio avviso, sottovalutato il discrimine tra la potestà interpretativa, necessariamente attribuita ai Cardinali dal n. 5, e il divieto di modifiche o dispense stabilito dai nn. 2 e 4: potenzialmente, ogni dubbio giuridico tale da richiedere una decisione formale può dare adito a contestazioni da parte di chi ritenga errata la soluzione scelta e sostenga trattarsi di modifica della legge sotto mentite spoglie (27). Il problema, con buona probabilità, è insolubile e si può solo cercare di prevenirlo tramite una disciplina chiara e dettagliata; qui forse UDG pecca per eccesso di sintesi, soprattutto rispetto ai precedenti più remoti. A prescindere, però, dalla possibile difficoltà di identificarle, le vere violazioni dei nn. 2, 4 e 5 (anche riguardo alle maggioranze prescritte) comportano senz’altro nullità dell’elezione, se attinenti alla sua disciplina.

Per quanto riguarda le Congregazioni preparatorie, di cui ai nn. 7-13, direi che l’unica loro attività capace, in potenza, di influire sull’elezione è la scelta della data di inizio del Conclave (esiste anche un influsso dei predicatori prescelti per le meditazioni, forse, ma un’invalidità di tale scelta mi sembra difficilmente concepibile). Potrebbero gli elettori procedere anche in assenza di una delibera della Congregazione, oppure eseguendone una invalida? A mio parere sì, perlomeno nella seconda ipotesi e purché nel rispetto del minimo di quindici giorni dall’apertura della Sede vacante; per la prima ipotesi, si pone il problema di come rendere veramente collegiale un’azione intrapresa fuori della procedura regolare… ma lo scopo della convocazione è mettere tutti gli elettori in grado di esercitare il proprio diritto, quindi se di fatto, il tale giorno alla tale ora, tutti i Cardinali infraottantenni giunti a Roma si trovassero in Cappella Paolina (cfr. n. 50) e dessero inizio al Conclave, lo scopo dovrebbe dirsi comunque raggiunto. Va però notato che, esattamente come in caso di convocazione legittima, qualunque Cardinale non avvertito avrebbe il potere di protestare, oltreché di entrare comunque in Conclave; e qui potrebbe pretendere che si annullino le operazioni svolte in sua assenza (cfr. can. 166) (28).

Invece, se a un Cardinale elettore si impedisse materialmente l’ingresso in Conclave, o se venisse escluso dall’elettorato attivo o passivo contro il disposto dei nn. 35-6 e 40 (29), o se come candidato fosse colpito da “esclusiva”, nell’accezione molto ampia del n. 80, si dovrebbe considerare violata la libertà dell’elezione, con conseguente nullità a norma della disciplina universale (can. 170); la conseguenza può sembrare eccessiva per la prima di queste ipotesi, ma un atto di prepotenza che impedisce il voto anche ad un solo elettore, se riuscito, manda un segnale a tutti gli altri e, prima facie, esclude che vi siano le necessarie condizioni di sicurezza personale. 

Ci si può chiedere se il Collegio abbia il potere di derogare alla UDG per trasferire altrove il Conclave, se Roma stessa fosse malsicura per qualunque motivo o vi fossero altre gravi ragioni. La risposta deve essere negativa, sia a termini dei nn. 2 e 4 sia perché un tale potere, espressamente attribuito a più riprese in passato e contenuto ancora nella “Romano Pontifici eligendo”, è stato eliminato durante la stesura di UDG. Bisogna allora concludere che, siccome la ratio legis per la scelta di rendere sede obbligatoria la Città del Vaticano è offrire ai Cardinali “accommodata collocatio atque permansio… ut operam dent ipsi electioni recte atque ordine explicandae” (n. 41), se essa viene meno con solare evidenza nel caso concreto, non può impugnarsi di nullità l’atto che convochi o trasferisca il Collegio altrove. Ma questo vale solo per situazioni lampanti, perché nel dubbio bisogna attenersi ad una legge che, come questa, non ammette dispensa (30).

Quanto al tempo di inizio delle operazioni elettorali, la violazione del minimo di quindici giorni ex n. 37, stabilito oltretutto con un imperativo “Praecipimus”, comporta nullità perché compromette il diritto dei Cardinali elettori non ancora presenti in Roma, che debbono poter contare su questo lasso di tempo per organizzare il proprio viaggio: in questo caso, quindi, non si applica il n. 39, secondo cui chi arriva in ritardo accetta l’elezione nello stato in cui si trova, e l’elettore sopravvenuto avrà il diritto di far annullare gli atti fin lì compiuti, proprio come se non fosse stato convocato affatto. Discorso diverso, invece, per il limite massimo di venti giorni: il tenore della disposizione è più blando, dato l’impiego di un congiuntivo esortativo, e se il termine acceleratorio per il completamento delle operazioni elettorali non comporta nullità (cfr. can. 165), molto meno questo per il loro semplice avvio. Inoltre, la nullità non tutelerebbe affatto l’interesse ad una celere provvista della Sede vacante, dato che creerebbe, come minimo, ritardi ulteriori (31).

Non è più prevista la nullità dell’elezione che non si svolga “in Conclavi clauso”, anche perché sotto chiave viene, in un certo senso, messo l’intero Stato vaticano; la violazione o l’imperfetta attuazione dell’articolato plesso normativo di cui ai nn. 44-8 non può, per sé sola, mettere a repentaglio la validità, ma il discorso cambia se, in conseguenza di ciò, pressioni in favore o contro qualcuno raggiungono qualche elettore e questi se ne fa portavoce presso il Collegio; beninteso, se solo il diretto interpellato soccombe alla pressione o al dolo diretto a condizionare il suo voto, sarà invalido quest’ultimo ma non l’esito delle votazioni, salvo che proprio la singola scheda sia decisiva.

Passiamo ai nn. 49-54. Per importanti che siano dal punto di vista spirituale, né la S. Messa pro eligendo Pontifice né la processione di ingresso in Sistina né la pia meditazione possono considerarsi essenziali alla validità giuridica dell’elezione; il segreto del Conclave, invece (nn. 51 e 55-61), riveste un’importanza notevole, ma il semplice fatto che qualcuno lo violi registrando o trasmettendo qualcosa non basta ad invalidare l’elezione, occorre una comunicazione in senso inverso che miri a condizionarla (e che non raggiunga solo un singolo Cardinale). Ci si può chiedere cosa accadrebbe se un elettore rifiutasse di prestare il giuramento prescritto ai nn. 52-3: il Collegio non ha il potere di dispensarlo, semmai di costringerlo, anche con un precetto penale… però non sembra che possa escluderlo e, se vi provasse, paradossalmente gli offrirebbe il destro per impugnare poi la validità dell’elezione compiuta. Qui forse si palesa una lacuna legislativa che sarebbe bene colmare.

Per quanto riguarda lo svolgimento dell’elezione stessa (nn. 62 sgg.), essendo stata abrogata la procedura per compromissum non è possibile farvi ricorso mutuandone la disciplina dal Codice latino (tanto più che l’istituto non esiste in quello orientale); le sole condizioni espresse di validità sono la maggioranza dei due terzi, del tutto inderogabile dopo le modifiche del 2007, e la corrispondenza tra numero delle schede e degli elettori, richiesta dai due Codici (cfr. cann. 169 e 173 §3 CIC) e confermata da UDG 68 con l’eccezione di cui al n. 69; non è prevista l’astensione, anzi ogni Cardinale deve tenere la scheda alta e ben visibile mentre si reca a deporla nell’urna (n. 66), quindi non dovrebbe mai esserci un numero di schede inferiore agli elettori presenti (32); se però accadesse, sarà necessario ripetere lo scrutinio, ex n. 68. Per il resto, tradizionalmente si ritengono essenziali solo l’espressione del voto mediante schede ripiegate e la designazione di scrutatori e Infirmarii, cioè i Cardinali deputati a raccogliere quelle dei confratelli infermi (33); si può aggiungere il voto personale, dato che la facoltà di designare un procuratore non è prevista (cfr. can. 167).

Si debbono però aggiungere, a mio parere, anche le regole sul numero degli scrutini e gli intervalli da osservarsi tra essi (nn. 63, 72, 74-5), in parte non previste nella “Romano Pontifici eligendo”, ma che, semplificate le procedure e in particolare escluso il compromesso, sono ora necessarie a presidio della doverosa ponderazione (34); quindi, l’eventuale omissione di qualche votazione prescritta non inficia le successive, e forse neppure l’aggiunta di una ulteriore che vada a vuoto, ma di sicuro è nulla quella aggiuntiva che sfoci in un’elezione. Inoltre, appunto perché si tratta di tutelare il diritto-dovere degli elettori ad una scelta ponderata, anche le votazioni nulle debbono essere computate quanto al rispetto dei limiti numerici.

Le altre disposizioni, pur se importanti come l’obbligo di consegnare gli scritti relativi all’elezione (n. 71), non obbligano a pena di nullità. Molto meno, poi, possono sortire effetto irritante i nn. 78-86, sia perché posti dopo il n. 76, sia perché ciò riuscirebbe a dir poco incongruo: sarebbe impraticabile e chimerico invalidare l’elezione perché i Cardinali non hanno avuto di mira solo la gloria di Dio e il bene della Chiesa (n. 83); nel momento in cui si dichiara valida l’elezione simoniaca del Papa, a fortiori non possono comportare nullità accordi che, pur vietati, non arrivino neppure a costituire simonia (nn. 78-9, 81-2); e se l’eletto, quantunque esortato da UDG 86 ad accettare, rifiutasse, ciò non invaliderebbe l’elezione già avvenuta, ma estinguerebbe semplicemente il diritto da lui ottenuto sull’ufficio, dimodoché le operazioni elettorali dovrebbero riprendere senza indugio.

Infine, quanto all’accettazione, che è l’ultima delle formalità indispensabili, al n. 88 della UDG occorre aggiungere il n. 62 dell’Ordo Rituum Conclavis, sulla raccolta del consenso dell’eletto che si trovi fuori della Città del Vaticano; l’unico requisito davvero essenziale è il consenso, ragion per cui non si chiede di accettare a chi già esercitasse di fatto l’ufficio di Papa (cfr. gli esempi di Martino V e Niccolò V, ovviamente del tutto eccezionali), ma per diritto positivo è obbligatorio che di tale consenso dell’eletto consti mediante un atto notarile, redatto dal Maestro delle Celebrazioni Liturggiche Pontificie. Sarei dell’avviso di non considerarla una norma invalidante, ma intesa appunto a stabilire un regime probatorio: se, per pura ipotesi, qualcuno fosse nel pacifico possesso dell’ufficio e non potesse esibire il documento, vi sarebbe comunque la certezza morale dell’avvenuta accettazione, stante appunto l’esercizio di fatto del potere papale; non così in caso contrario. Infine, sebbene UDG sembri richiedere una manifestazione immediata del consenso, appare applicabile anche e soprattutto all’elezione del Papa il can. 177: non si potrebbe ragionevolmente negare uno spatium deliberandi a chi lo richiedesse, tanto più che, a mio avviso, il Collegio potrebbe fissare un termine perentorio più breve degli otto giorni di legge e che l’eletto, avendo visto l’esito profilarsi se era presente in Conclave, certo avrà già cominciato a riflettere prima.


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[1]    Cfr. gli atti in J.D. Mansi (cur.), Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio…, vol. XXVIII, Venezia 1785, 1117B-1120D; v. anche A. Bzovius, Annalium ecclesiasticorum post illustrissimum et reverendissimum dominum D. Caesarem Baronium, S.R.E. Cardinalem Bibliothecarium, t. XV (1378-1431), Colonia 1622, pagg. 706-31.

[2]    Cfr. F. Cognasso, Felice V antipapa, in Enciclopedia dei Papi, Roma 2000, con ampia bibliografia.

[3]    Cfr. F. Suarez, De fide, spe et caritate, Tract. I – De fide theologica, Disp. V, Sect. VIII – An Papa sine Concilio sit certa regula fidei e Disp. X, Sect. V – An certa fide constare possit, hunc hominem esse verum Pontificem et Ecclesiae caput, in Id., Opera omnia, vol. XII, Parigi 1858, pagg. 161-5 e 312-5.

[4]    Robert Siscoe e John Salza hanno raccolto un’impressionante silloge di autori favorevoli a questa tesi, ma nessuna delle citazioni da loro riportate la qualifica de Fide; in più, la rassegna consente di verificare che gli autori sono divisi sull’esatto valore da assegnarsi all’accettazione pacifica, che per alcuni esclude a priori che un qualunque vizio vi sia mai stato, per altri lo sana a posteriori (e non in modo retroattivo), per qualcun altro ancora comporterebbe supplenza di giurisdizione. La dottrina in discorso è quindi comune, ma non unanime, e i suoi stessi fautori ne offrono involontaria conferma.

[5]    Tralascio svariati ulteriori argomenti che ci porterebbero troppo lontano, dall’altalena di decisioni contrastanti sulla validità dell’elezione di Papa Formoso alle nette indicazioni contrarie all’adesione universale nelle bolle “Cum tam divino” e “Cum ex apostolatus officio”. Inoltre, il Prof. Sánchez Sáez ha dimostrato in modo convincente come la tesi in discorso non possa fondarsi sulla prop. 11 della bolla Inter cunctas di Martino V, pur costantemente invocata a suffragio di essa da Suárez in poi.

[6]    Le polemiche su quali decreti di Costanza siano stati approvati dal Papa, e fino a che punto, sono ben note, ma il principio per cui il “Concilio imperfetto” è giudice del Papa dubbio almeno nel caso dello scisma di Papi è stato recepito pacificamente dalla generalità degli autori e dovrebbe perciò risultare extra controversiam.

[7]    Si badi che qui si parla di un’accettazione universale dagli effetti diversi rispetto a quella del paragrafo che precede: lì si trattava, in tesi, della prova infallibile dell’inesistenza di alcun vizio, qui al contrario si assume che i vizi esistano e che, tuttavia, ogni soggetto legittimato a farli valere e/o ad eleggere comunque il vero Papa disponga del proprio diritto nel momento in cui accetta il fatto compiuto. 

[8]    F.X. Wernz – P. Vidal – Ph. Aguirre, Ius Canonicum ad normam Codicis exactum, vol. II, Roma 1943, pagg. 481-3, propugnano l’abrogazione perché la norma non è stata ripresa nella Cost. Ap. “Vacante Sede Apostolica” di S. Pio X, che, a norma del can. 160 CIC 1917, dovrebbe essere l’unica fonte che regola l’elezione papale. Ma il canone serve soltanto ad escludere che ad essa si applichino le regole del Codice (“Romani Pontificis electio unice regitur const. Pii X Vacante Sede Apostolica, 25 Dec. 1904; in aliis electionibus ecclesiasticis serventur praescripta canonum qui sequuntur, et peculiaria, si qua sint, pro singulis officiis legitime statuta.”). Soprattutto, le leggi sull’elezione del Pontefice non possono, a mio avviso, essere modificate o abrogate dai Codici latini, perché riguardano allo stesso modo tutti i cattolici, inclusi gli orientali, in quanto servono a determinare l’identità della persona fisica che, in un dato momento, deve essere considerata investita del Pontificato. Dal canto suo, la Costituzione piana mirava soprattutto a codificare le norme di procedura, sostituendo la Aeterni Patris di Gregorio XV, non i vizi sostanziali (tranne la simonia, unico contemplato e solo per escluderne l’effetto invalidante, che altrimenti discenderebbe da una norma generale). Siccome però, sia per il Codice del 1917 sia per quello del 1983, il voto espresso per timore grave è nullo in ogni elezione, servirebbe un’analoga deroga espressa per rendere il problema irrilevante proprio nel caso del Papa, cioè dell’atto elettorale più importante della Cristianità; ma siccome una simile deroga non esiste (e sarebbe con molta probabilità irragionevole), allora le disposizioni di Costanza, presupponendo appunto l’applicabilità della regola generale, possono ben considerarsi come una legge speciale anteriore, che non viene abrogata per il solo fatto di non essere stata ripresa in quella generale posteriore.

[9]    Cfr. G. Wassilowski, Dall’“adorazione” allo scrutinio segreto. Teologia e micropolitica nel cerimoniale del conclave riformato da Gregorio XV (1621-22), in Dimensioni e problemi della ricerca storica 2007, pagg. 37-55, soprattutto 46: “Di pari passo all’affermarsi della prassi dell’adorazione veniva messa in pericolo l’autonomia procedurale interna al conclave. È facile immaginare sotto quale pressione si dovessero sentire i cardinali delle fazioni minoritarie, nel momento in cui il numero degli omaggi “per adorazione” superava la semplice maggioranza. Si attivava un automatismo, accresciuto dalla paura che il futuro papa potesse vendicarsi su coloro che nel conclave erano gli ultimi ad onorarlo. Al più tardi all’avvicinarsi della maggioranza dei due terzi, tutti quelli che non avevano ancora fatto l’inchino si affrettavano a procedere. Ed è proprio da questo meccanismo che derivavano i ben noti tumulti e le azioni precipitose.”. Merita altresì rilevo la considerazione dell’autore secondo cui la riforma di Gregorio XV ha comportato “un cambiamento fondamentale nei paradigmi religioso-politici di legittimazione del papato della prima età moderna. Il legittimo sovrano pontefice viene adesso creato attraverso un’addizione di scelte di coscienza. Il cerimoniale permette da un punto di vista tecnico e celebra sul pianosimbolico il fatto che questa decisione rimanga per sempre in secretum. Se almeno due terzi degli elettori, ricorrendo isolatamente all’ultima istanzainteriore della loro coscienza, giungono allo stesso risultato, colui che è eletto papa in questo modo può senza dubbio rivendicare per sempre di essere stato innalzato al soglio di Pietro per ispirazione della divina provvidenza. Nel nuovo cerimoniale la provvidenza deve prevalere sulla rete delle connessioni sociali.” (ivi, pag. 48).

[10]    Perlomeno se ci si attiene alla regola che esclude dal voto i Cardinali che hanno compiuto ottant’anni prima del momento in cui la Sede si rende vacante.

[11]    Cfr. S. A.M. de’ Liguori, Theologia Moralis, Lib. III, Tract. I, Cap. II, Dubium III – De simonia, Art. III – Quae sint poenae simoniae, Qu. IV – An electio Pontificis simoniaca sit nulla (ed. Parigi 1835, vol. I, pagg. 312-3). Va notato che, all’epoca, si parlò di elezione simoniaca per Clemente XIV, in quanto vi sarebbe stato un accordo in cui l’eligendo si sarebbe impegnato a sopprimere i Gesuiti, e una tradizione leggendaria vuole che il Pontefice morente sia stato assistito proprio da S. Alfonso, in “bilocazione”. 

[12]    F.X. Wernz – P. Vidal – Ph. Aguirre, op.vol.cit., pagg. 480-2, nt. 56. Va peraltro notato che il motivo per cui si parla di potestà conferita da Cristo è che, nella Chiesa, il potere viene sempre dall’alto e che il Papa non è né il deleato né il rappresentante dei Cardinali, o dei Vescovi, etc.; chi è superiore a tutte le autorità umane non può ricevere il proprio potere da altri che da Dio; non per questo però si tratta di un altro tipo di potere, come i chiarissimi Autori sembrano pensare, perché il Vaticano I la definisce “iurisdictio vere episcopalis”. Dunque, anche sotto quest’aspetto, nulla ripugna alla possibilità di supplenza.

[13]    Prima della codificazione del 1917, la maggior parte degli autori richiedeva che all’errore comune si unisse anche il c.d. “titolo colorato”, cioè un atto di nomina o di delega prima facie valido; ma il requisito è stato superato per effetto della mancata menzione nel can. 209 CIC 1917.

[14]    Tuttavia, è difficile immaginare che vengano meno sia la supplenza per errore comune sia quella per dubbio probabile: fintantoché la causa del Papa illegittimo non è proprio destituita di fondamento, anche se i suoi seguaci si riducessero a pochissimi, l’obiettiva probabilità almeno estrinseca basterebbe a fondare il potere di giurisdizione. Nel caso poi di scisma di Papi, supposta la probabilità dei titoli di tutti i contendenti, tutti avrebbero giurisdizione supplita, ma in concreto essa si eserciterebbe solo sulle rispettive obbedienze: ciascuno di loro, infatti, sarebbe in tesi autore di atti vincolanti per la Chiesa universale, ma coloro che seguono altre opinioni probabili su chi sia il vero Papa sono, almeno in generale, scusati dall’inosservanza delle disposizioni di chi ritengono illegittimo.

[15]    Il problema è, anzitutto, se la potestà di Magistero sia un aspetto della giurisdizione o un potere diverso. Da un lato, non c’è dubbio che gli atti magisteriali comportino sempre effetti giuridici, perché l’obbligo di prestare l’assenso religioso è assistito anche da sanzione penale (cfr. cann. 752 e 1371); per contro, però, oggetto, intento dell’autore e la causa formale sono diversi rispetto all’ambito disciplinare. A parer mio, fermo che comunque non si dovrebbe mai porre il caso di un atto infallibile emesso da un Papa illegittimo ma di illegittimità del tutto ignota, il problema si ridimensiona in modo abbastanza agevole, dato che comunque gli altri atti non sono di per sé incontestabili.

[16]    Sia chiaro: il loro difetto di titolo sussiste e pertanto, a rigore, non dovrebbero né essere convocati né presentarsi. Ma, a prescindere dall’imputabilità morale degli errori a monte (che potrebbero perfino essere punibili, e tali resterebbero), una volta che di fatto siano lì e intervengano, tutto si svolge legittimamente. La supplenza, infatti, non opera né come una delega né come una sanatoria: la prima attribuisce il potere il precedenza, la seconda ex post; la supplenza, come una sorta di via di mezzo, proprio nell’atto di agire e per il fatto che si sta agendo.  

[17]    Cfr. A.S. Camarda, De pertinentibus ad electionem Papae, Rieti 1727, pagg. 103-4; menziona solo le prime due opinioni (con un accenno ad una devoluzione ai Patriarchi) L. Ferraris, Prompta Bibliotheca canonica, juridica, moralis, theologica, vol. V, Parigi 1854, s.v. Papa, coll. 1810-1, nn. 44-5.

[18]    Non si tratta comunque, beninteso, di un preteso ius apostolicum, categoria già di per sé inutile perché tutto ciò che gli Apostoli hanno disposto rientra o nel diritto divino oppure in quello umano: appunto perché siamo nel campo della semplice legge umana, la disciplina che si può supporre ancora in vigore per questo solo caso è quella immediatamente anteriore alla riserva dell’elezione ai Cardinali.

[19]    A. de Vincentiis, Niccolò V, antipapa, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LXXVIII, Roma 2013. può essere il caso di notare che “La cerimonia si concluse con la conferma dell’elezione da parte dell’imperatore, che consegnò al papa i simboli dell’autorità apostolica, l’anello e il manto pontifici. Infine, gli attribuì il nome Niccolò.”: l’imperatore rivendicava ed esercitava un diritto di conferma dell’elezione derivante dal “privilegio ottoniano”, che ai nostri fini non è necessario discutere, perché suppone comunque un’elezione già completa.

[20]    Tuttora, queste Diocesi sono dotate non solo di un proprio Vescovo, ma anche di un proprio clero, cioè di Sacerdoti che si considerano ad ogni effetto incardinati ad Albano, o a Velletri-Segni etc., e non a Roma. Ci si può chiedere se il diritto di elezione spetterebbe ai chierici incardinati nella Diocesi romana oppure a quelli in essa residenti; la soluzione più corretta mi sembra la prima.

[21]    Lo stesso dicasi per la consacrazione dell’eletto che non fosse già Vescovo, atto che spetterebbe al Cardinale Decano in quanto titolare della Diocesi di Ostia.

[22]    In realtà, UDG è norma più generale del Codice latino e a fortiori dell’orientale, non a caso li richiama entrambi (cfr. ad es. n. 77); ma il can. 38 CIC trova un equivalente sostanziale nel can. 1515 CCEO.

[23]    Cfr. J. Miñambres, Il governo della Chiesa durante la vacanza della Sede Romana e l’elezione del Romano Pontefice, in Ius Ecclesiae 8 (1996), pagg. 713-29; P. Majer, “Universi Dominici Gregis”: la nueva normativa sobre la elección del Romano Pontífice, in Ius Canonicum 72 (1996), pagg. 669-712; J. Miñambres, Commento in J.I. Arrieta – J. Canosa – J. Miñambres (curr.), Legislazione sull’organizzazione centrale della Chiesa, Milano 1997, pagg. 1-101; J.I. Arrieta, Il sistema elettorale della Cost. Ap. Universi Dominici Gregis, in Ius Ecclesiae 12 (2000), pagg. 137-62; M.F. Pompedda, Cost. Ap. Universi Dominici Gregis (22 febbraio 1996), in P.V. Pinto (cur.),Commento alla Pastor Bonus e alle norme sussidiarie della Curia Romana, Città del Vaticano 2003, pagg. 301-69; J. Otaduy – A. Viana – J. Sedano (curr.), Diccionario General de Derecho Canónico, voll. I-VII, Pamplona 2012, ss.vv. CardenalColegio CardenalicioCónclaveElección del Romano Pontífice, Secreto en la Elección del Romano Pontífice, Sede apostólica vacante e impedida. Salvo mio errore, tutti si limitano a richiamare le nullità testuali e nessuno svolge una disamina approfondita di UDG 76. Non ho, purtroppo, potuto consultare J.M. Fernández, El sistema electivo del Romano Pontífice. Origen de su autoridad suprema en el ordenamiento canónico actual, Buenos Aires 2011.

[24]    Cfr. rispettivamente Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Decreto definitivo 26 aprile 1986Dimissionis, c. Sabattani, Suor X / Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari, prot. n.17083/85 CA e, ancor più radicalmente, Decreto definitivo 14 marzo 2009Amotionis a paroecia, c. Erdö, Rev. X / Congregazione per il Clero, prot. n. 39682/07 CA; Decreto definitivo 29 febbraio 2008Suppressionis monasterii, c. Coccopalmerio, Suor X / CIVCSVA, prot. n. 37162/05 CA e Decreto del Congresso 28 febbraio 2002, Amotionis et incardinationis; diffamationis; iurium oeconomicorum; damnorum, prot. n. 31547/00 CA; Sentenza definitiva 14 novembre 2007Amotionis ab officio Vice-Rectoris Seminarii, c. Cacciavillan, Rev. X / Congregazione per l’Educazione Cattolica, prot. n. 37707/05 CA, che si appoggia alla communis opinio per ritenere valida la nomina del ricorrente, avvenuta a voce, ma esclude che lo sia l’altrettanto informale rimozione, posto che l’ufficio non era tra quelli “a discrezione dell’autorità competente” e la nomina verbale non aveva attribuito un diritto solo precario né poteva ritorcersi in suo danno.

[25]    Contra, forse, M.F. Pompedda, op.cit., pag. 357, che, ribadito il principio per cui i Cardinali non hanno il potere di alterare le procedure, ricollega a ciò il n. 76, “che, in applicazione del can. 10 CIC (cf. can. 1495 CCEO), introduce qui una nullità insanabile, che perciò renderebbe irrita l’elezione, nel caso di contravvenzione alle procedure sopra descritte.”. Ma la trattazione è davvero troppo rapida perché si possa desumere con certezza che l’Em.mo commentatore intendesse escludere ogni altra ipotesi di nullità, anziché limitarsi a richiamare la più ovvia.

[26]    La brevità dei Conclavi recenti ha indotto più di un osservatore a domandarsi se non si verifichino fenomeni di rapidissima convergenza sul candidato che esordisce “in testa”, non così dissimili dagli inconvenienti dell’adoratio.

[27]    Il lettore ricorderà il caso, sollevato da Antonio Socci, della scheda in più rimasta piegata insieme con un’altra: la discussione se dovesse applicarsi il n. 68 o il n. 69 aveva un suo perché e, potenzialmente, anche un impatto immediato sulla legittimità di scrutini ed elezione.

[28]    Tutto ciò vale anche per il caso in cui, a monte, sia mancata la convocazione del Collegio da parte del Decano o di altro Cardinale in suo nome; ovviamente, però, sarà più difficile fare in modo che tutti gli aventi diritto si presentino a Roma, perché il relativo dovere giuridico, ai sensi del n. 38, sorge solo una volta che sono stati convocati.

[29]    “La normativa precedente faceva esplicito riferimento, al caso dei cardinali scomunicati, sospesi o interdetti, e stabiliva che ‘queste censure dovranno ritenersi sospese soltanto agli effetti di tale elezione’ (n. 35 RPE). La norma attuale potrebbe essere interpretata nello stesso senso […] In conclusione, anche se la norma attuale è più generale e comprende nella sua fattispecie tutte le ipotesi possibili, il n. 35 RPE riusciva più chiaro, per via di esemplificazione, quanto alla portata dei ‘motivi o pretesti’.”. J. Miñambres, Commento, cit., pag. 47.

[30]    “Tale determinazione del luogo dell’elezione ha una concreta rilevanza giuridica dal momento che[,] fatta legittimamente la convocazione, hanno il diritto di dare il voto i presenti nel giorno e nel luogo” ivi fissati. Ibid., pag. 50. Nello stesso senso, M.F. Pompedda, op.cit., pag. 334, che specifica che il luogo è, però, diverso per i malati. 

[31]    Così F.X. Wernz – P. Vidal – Ph. Aguirre, Ius Canonicum ad normam Codicis exactumop.vol.cit., pag. 479; cfr. anche M. Bonacina, Tractatus de legitima Summi Pontificis electione, Lione 1637, pag. 127: “exceptio enim contra Summum Pontificem a duabus Cardinalium partibus electum, opponi non poteest, nisi in casibus in Iure expressis; sed dilatio & prorogatio non est impedimentum in Iure expressum, ergo opponi non potest; tum quia sequeretur semel dilata electione, nullum postea creai posse legitimum Pontificem, quod est absurdum.”.

[32]    È materialmente possibile, però, votare scheda bianca.

[33]    Cfr. P.M. Passerini, Tractatus de electione Summi Pontificis, Roma 1670, pagg. 122 e 160; A.S. Camarda, De pertinentibus ad electionem Papae, Rieti 1727, pagg. 124 e 253. M. Bonacina, op. cit., pagg. 133-46, oltre a salvare il caso in cui ci sia qualche voto palese, ma anche eliminandoli si veda che l’eletto mantiene la maggioranza (e su ciò concordo), non menziona né gli scrutatori né gli Infirmarii; ma i primi sono indispensabili affinché il computo avvenga con ordine e debbono redigerne relazione ufficiale, mentre dei secondi si può fare a meno solo se di fatto non vi siano Cardinali malati, perché tutti debbono avere la possibilità di esprimere il proprio voto.

[34]          La riscrittura del n. 75 disposta, da ultimo, con il m.p. Normas nonnullas del 22 febbraio 2013 ha eliminato qualsiasi appiglio che potesse suffragare l’ipotesi che  il Collegio degli elettori possa, almeno in qualche circostanza, decidere se e quando procedere alle votazioni.