di Luca Fumagalli

Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire la figura di Tolkien e quella di molti altri scrittori del cattolicesimo britannico, si segnala il saggio delle Edizioni Radio Spada Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secoloLink all’acquisto.

Il Novecento è conosciuto come il secolo dei totalitarismi, caratterizzato da devastanti ideologie e da dittatori che hanno violentato la realtà, causando milioni di morti pur di applicarle. È stata indubbiamente un’epoca in cui nuovi tiranni hanno imperversato nella politica internazionale, facendo il bello e il cattivo tempo; tuttavia sarebbe un’ingenuità pensare che il capitalismo democratico che governa oggi l’Occidente sia la garanzia di un ordine giusto e benevolo. Charles De Koninck, in On The Primacy of the Common Good, spiega il perché: «Una società costituita da persone che prediligono il proprio bene privato sul bene comune, o che identificano il bene comune con il bene privato, non è una società di uomini liberi ma di tiranni, “e così l’intero popolo diventa come un tiranno”, […] a capo dei quali vi è semplicemente il tiranno più forte, più intelligente, e i sudditi sono solo tiranni inferiori, frustrati».

Riprendendo il De Regno, una democrazia come quella moderna, in cui il bene comune è bandito dalla vita pubblica o è sostituito da un generico utilitarismo, corre il serio pericolo di trasformarsi in un totalitarismo peggiore di qualunque tirannide (quest’ultima intesa come degenerazione della monarchia, che l’aquinate, al pari di Tolkien, riteneva la migliore forma di governo, essendo la più simile all’ordine naturale, con Dio a capo del creato). Roy Campbell, poeta cattolico di origini sudafricane che il professore di Oxford ebbe modo di incontrare durante una riunione degli Inklings – di lui si parla lungamente in una lettera del 6 ottobre 1944 – coniò il neologismo “fasciodemonscevismo” proprio per descrivere la confusa e pericolosa situazione politica del dopoguerra.

Tuttavia il tiranno resta comunque un serio pericolo: Saruman è l’unico personaggio in tutto Il Signore degli Anelli a utilizzare, con sfumature inquietanti, il termine “bene comune”. Quando Gandalf visita per la seconda volta Isengard, questi tenta inutilmente di convincere l’ex amico ad allearsi con lui per guidare «gli inferiori» verso un futuro migliore: «Siano essi a ubbidire alle nostre decisioni! Per il bene comune sono disposto a dimenticare il passato e a riceverti. Non vuoi consultarti con me?». In tali circostanze non solo è legittimo ma è persino doveroso ribellarsi al tiranno. Lo dimostra la vicenda di Beregond che disattende gli ordini ricevuti, abbandona il presidio assegnatogli – e per questa infrazione al suo dovere sarà punito, sebbene con una pena alleviata grazie agli indubbi meriti – e affronta i servitori del proprio signore, ormai in preda alla follia, pur di salvare Faramir. Il suo è un “tradimento onesto”, per molti versi simile a quello che ne Lo Hobbit compie Bilbo nei confronti di Thorin e dei Nani assediati nella Montagna.

Il capolavoro tolkieniano, non senza una punta di ironia alla Chesterton, aiuta il lettore a recuperare un sano concetto di bene comune a partire dalla descrizione dal rapporto di interdipendenza che si viene a creare nel corso dell’avventura tra Sam, Frodo e Gollum, tre personaggi con obiettivi specifici diversi: se i due Hobbit hanno il compito di distruggere l’Anello, Gollun, quantunque lacerato da dubbi e possibili retromarce, vuole invece riprendere il suo amato “tesoro”, e per fare ciò ha già pensato a un piano. Per fortuna, alla fine la benevolenza dei due Hobbit nei confronti della povera creatura permette la distruzione dell’Unico e la vittoria dei popoli liberi della Terra di Mezzo.

Era stato Gandalf a sollecitare nei due Hobbit un simile sentimento, invitandoli ad alzare lo sguardo e a guardare oltre i loro meschini tornaconti. Nelle prime pagine de Il Signore degli Anelli, infatti, davanti a un Frodo che si rammarica del fatto che Bilbo non abbia ucciso quel viscido di Gollum quando ne aveva avuto l’opportunità, Gandalf sbotta in un duro rimprovero: «Ma fu la pietà a fermargli la mano. Pietà e misericordia: egli non volle colpire senza necessità». Frodo sembra ancora non capire, e qualche riga dopo sostiene che i nemici, come Gollum, meritano la morte. La risposta dello stregone, ancora una volta, è fermissima: «Se la merita! E come! Molti tra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu un grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le sue conseguenze. Ho poca speranza che Gollum riesca a essere curato e a guarire prima di morire. Ma c’è una possibilità. Egli è legato al destino dell’Anello. Il cuore mi dice che prima della fine di questa storia l’aspetta un’ultima parte da recitare, malvagia o benigna che sia; e quando l’ora giungerà, la pietà di Bilbo potrebbe cambiare il corso di molti destini, e soprattutto del tuo». Riecheggiano le parole che scriveva Tolkien in una lettera del 26 luglio 1956: «Esiste la possibilità di essere messi in una posizione al di là delle proprie forze. Nel qual caso (così io credo) la salvezza dalla rovina dipenderà da qualcosa di apparentemente slegato: la santità generale (e l’umiltà e la pietà) della persona sacrificale».

Hren aiuta a rileggere il rapporto tra Sam, Frodo e Gollum in chiave “politica”: quando si è coinvolti in un legame di mutua dipendenza, «scopriamo che molti dei nostri beni sono beni condivisi; quello che è buono per Gollum è infatti buono per Sam e Frodo. Quello che è buono per Frodo è buono per Sam. Quello che è buono per Sam è buono per Frodo. La considerazione di quale parte devono svolgere determinati beni nella mia vita è inseparabile dalla parte che tali beni devono svolgere nella vita della nostra comunità».

La Terra di Mezzo non è dunque salvata dallo sforzo di volontà di un singolo deus ex machina, ma dall’impegno di una serie di personaggi che operano per il bene comune, come sottolineato da Colleen Donnelly in Feudal Values, Vassalage, and Fealty in “The Lord of the Ring”: «Il bisogno del bene comune dell’intera società e il contributo del singolo ad esso eccedono di gran lunga l’importanza dei bisogni e dei traguardi dell’individuo».

Ed è il monarca – al netto delle ovvie tentazioni assolutistiche che il suo incarico comporta – colui che ha il compito di ordinare tutte le cose per un fine superiore. L’analogia tomista tra l’unico Dio, sovrano della storia, e il potere individuale del re sulle terre a lui affidate si riverbera pure nel legendarium, in cui, nota Hren, «Tolkien può anche non aver apertamente istituito un parallelismo tra Aragorn e Ilúvatar, ma il fatto che Ilúvatar, il Creatore della Terra di Mezzo, sia descritto con un linguaggio adatto a un sovrano, fa sì che il legame tra i due sia più che implicito».

Quando sosteneva di essere favorevole a una monarchia “non costituzionale”, il professore di Oxford non stava facendo altro che riferirsi a una mitologizzazione del Sacro Romano Impero diversa da quella tentata da Hitler, il quale, come Hegel e Saruman, pretendeva di sostituire il Mondo Primario con quello Secondario di sua invenzione. Bradley Birzer, in J. R. R. Tolkien’s Sanctifying Myth, parla a ragion veduta di «mito per la restaurazione della stessa cristianità». Per lo scrittore inglese l’Impero non era il braccio armato della Chiesa, ma rappresentava piuttosto i missionari anglosassoni che avevano donato la tradizione classica e cristiana all’Europa barbarica, dando inizio al processo di formazione della civiltà medievale. A proposito del ritorno di Aragorn su quel trono che gli spetta di diritto, Tolkien spiegava che «la storia termina in qualcosa che è molto più simile al ristabilimento di un effettivo Sacro Romano Impero con la sua sede a Roma» (a raccogliere la citazione è sempre Birzer, che nota inoltre diverse somiglianze tra la geografia di Gondor e alcune parti della penisola italiana).

Come scrivono Mingardi e Stagnaro, l’interesse di Tolkien per il Medioevo «è motivato dal fatto che la legge che il re si trovava a far rispettare, della quale era arbitro (ma non “scrittore”) in terra, era agli antipodi rispetto al diritto moderno stemperato di ogni connotazione morale e razionale e ridotto a instrumentum regni nel senso più vero del termine. È una legge scritta nelle stelle, per come è possibile all’uomo afferrarla utilizzando la propria ragione».

Aragorn è un’icona della regalità cristiana che simboleggia una rinnovata relazione tra il potere spirituale e il potere temporale in termini non molto dissimili da quelli illustrati da Yves Du Pont nel suo peculiare Catholic Prophecy (1959), libro in cui si profetizza, dopo una serie di cataclismi, l’arrivo di un imperatore che volentieri coopera con il pontefice.

D’altronde Aragorn, come è stato evidenziato da più di uno studioso, mostra vari tratti del sovrano cristiano per eccellenza: oltre al grande eroismo morale, all’umiltà rivelata nell’atteggiamento esitante di fronte all’assunzione del trono, alle doti di taumaturgo e alla capacità di imporre la propria volontà persino agli spettri, egli decide di morire in maniera sacrificale, come è descritto nelle “Appendici” de Il Signore degli Anelli: «Ormai, Dama Stella del Vespro, la più splendida di questo mondo e la più amata, il mio mondo sta svanendo. Abbiamo raccolto, abbiamo speso, e ora si avvicina il momento di pagare. […] A me fu data soltanto una vita tre volte più lunga di quella degli Uomini della Terra di Mezzo, ma anche la grazia di partire volontariamente, restituendo il dono ricevuto. Ora, quindi, dormirò». Inoltre Aragorn – lo scrive Jane Chance in Tolkien’s Art – «in qualità di monarca sacro, assomiglia a Oswald ed Edmund, i re santi degli anglosassoni. Aragorn, ovviamente, non segue una croce quando scende in battaglia, ma indossa la sua Gemma Elfica, l’equivalente mitologico. Il re ideale di Tolkien, […] come il Rex Pacificus anglosassone e il monarca degli antichi ebrei, porta pace, prosperità e giustizia sulle sue terre».

Un sovrano degno di questo nome deve quindi avere come obiettivo il bene comune. Il Signore degli Anelli, ricorda Donnelly, «termina con un re, un governatore supremo, che unisce tutti i popoli e che crea una società ordinata fuori dal caos e dalla rovina della guerra». Torna a sottolinearlo pure la Chance: «Il benessere politico e sociale che segue il ritorno del re dona ordine e armonia sia al singolo suddito che ai gruppi di sudditi, alle comunità che costituiscono la Terra di Mezzo». Aragon perdona i nemici che si sono arresi e ai servi dell’Oscuro Signore concede di vivere confinati nei loro territori. Con la sua incoronazione la pace e l’unità danno il via a un contagio globale che ha il sapore della giustizia; nelle parole di Chesterton, si tratta della vera democrazia che solo un re, libero da interessi di parte, è in grado di garantire. Secondo Hren, «se non siamo riusciti a capire che “Il ritorno del re” è anche e forse soprattutto “Il ritorno del bene comune” nella Terra di Mezzo, è dovuto in parte al fatto che non abbiamo voluto leggere il lavoro del germanofilo Tolkien attraverso lenti tomiste. È solo portando l’etica politica cattolica a dialogare con il romanzo che possiamo notare il matrimonio tra la solidarietà e la sussidiarietà», quello che si consuma tra Aragor, il re giusto, e la Contea o, più in generale, quei paesi lontani dai confini di Gondor in cui si vive pacificamente in un’ “anarchica” assenza di leggi e di polizia.

È un simile contesto “feudale”, retto su un benefico dialogo tra autorità e libertà, in cui il potere è sminuzzato, diviso in una pluralità di istituti e realtà le une in concorrenza con le altre, che ha portato tra gli altri la Milbank a ipotizzare una connessione tra Tolkien e il movimento distributista, ed è anche il motivo per cui lo scrittore si poteva definire, senza paura di cadere in contraddizione, allo stesso tempo monarchico e anarchico.

D’altronde un governo, purché non eccessivamente invadente, non è in antitesi con la libertà del singolo. Per il professore di Oxford, infatti, come più volte ricordato nei capitoli precedenti, la libertà non riguarda solamente la possibilità di scegliere, ma anche l’oggetto della propria scelta. Se il bene, metastorico e metaculturale, non fosse un fine – e la via per conseguirlo è spesso drammatica e lacerante – Frodo sarebbe stato ampiamente legittimato a tenere l’Anello per sé, trattandosi pur sempre di una sua proprietà. Quando si incontrano la prima volta, Aragorn rammenta a Éomer che «il Bene e il Male non sono cambiati rispetto al tempo che fu; non sono una cosa presso gli Elfi e i Nani e un’altra presso gli Uomini. Tocca a ciascuno di noi distinguerli, tanto nel Bosco d’Oro quanto nella propria casa».

Che non vi sia dicotomia tra il bene particolare e quello comune lo dimostra anche il fatto che ogni protagonista de Il Signore degli Anelli, mentre lotta per la sua terra e il suo popolo, porta un contributo fondamentale alla guerra contro Sauron. Si tratta di una reazione spontanea innescata dal diffondersi del male, una reazione, però, che deve innanzitutto liberarsi da ogni retropensiero egoistico (quello che risulterà fatale a Boromir e al suicida Denethor, il quale, secondo Tolkien, «se fosse sopravvissuto come vincitore, anche senza usare l’Anello, avrebbe fatto un grande passo verso il diventare lui stesso un tiranno, e i termini e le condizioni che avrebbe imposto ai popoli ingannati dell’Est e del Sud sarebbero state crudeli e vendicative. Era diventato un capo “politico”: cioè Gondor contro tutti gli altri»). Dunque il benevolo rimprovero di Elrond ai Nani può a ragione essere applicato a tutte le genti: «Non altro potete fare che resistere, con o senza speranza. Ma non siete soli; apprenderai fra poco che i vostri problemi sono soltanto una parte dei grandi problemi di tutto il mondo dell’Occidente. L’Anello! Che fare dell’Anello, il minore degli anelli, il gingillo che piace a Sauron? Questa è la decisione che dobbiamo prendere».

Che non si è soli, lo capisce anche Bilbo, quando, durante il consiglio di Elrond, Gandalf rifiuta la sua offerta di diventare ancora una volta il portatore dell’Anello: «Certamente, mio caro Bilbo, se fossi stato veramente tu a incominciare questa storia, si potrebbe pretendere che tu la finissi. Ma ormai sai bene che nessuno è abbastanza grande per poter rivendicare di aver incominciato, e che la parte recitata nelle imprese memorabili degli eroi non è che molto piccola».

Ma per indirizzare correttamente gli sforzi dei sudditi verso un fine comune è necessaria un’autorità, di qualcuno che non si faccia carico di una sintesi delle parti ma di una responsabilità verso il Bene: gli smarriti popoli liberi hanno davvero bisogno di un sovrano, e ora c’è Aragorn, che compie il gesto regale di piantare un virgulto d’albero, segno dell’inizio di una nuova era.


Fonte: L. FUMAGALLI, La società della Contea. Appunti sulla filosofia politica di J. R. R. Tolkien, NovaEuropa Edizioni, 2019.



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