di Luca Fumagalli
Seguendo le piste tracciate da Adam Schwartz nel saggio The Third Spring (2005), quest’anno lo speciale culturale di agosto è dedicato alla storia della conversione di quattro grandi intellettuali del cattolicesimo britannico del Novecento, ossia il giornalista e polemista G. K. Chesterton, il romanziere Graham Greene, lo storico Christopher Dawson e il poeta David Jones. Per quanto diversi tra loro per personalità e sfumature ideologiche, oltre a essere stati figure di spicco nei rispettivi campi, tutti e quattro vissero la fede a cui decisero di aderire con spirito di ribellione, considerandola l’unica alternativa valida a una modernità priva di valori e votata inevitabilmente alla rovina.
Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire la figura di Greene e quella di molti altri scrittori del cattolicesimo britannico, si segnala il saggio delle Edizioni Radio Spada Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo. Link all’acquisto.

Quella del genio sregolato è forse un’etichetta un po’ troppo abusata, ma è perfetta per descrivere Graham Greene (1904-1991), uno dei più importanti scrittori britannici del Novecento. Autore di numerosi romanzi in cui si evidenziano le infinite contraddizioni dell’animo umano, attratto da quello che Browning definiva «il bordo vertiginoso delle cose», Greene fu un prosatore di rara incisività, che fece del cattolicesimo a cui decise di convertirsi prima del matrimonio uno degli assi portanti della sua opera e della sua tormentata parabola biografica. Pur di indole progressista, portò avanti un’originalissima lotta contro la moderna società post-cristiana, e se la sua vita spirituale fu una costante alternanza di alti e bassi, il pensiero e la poetica rimangono tanto peculiari quanto attraenti.
I genitori di Greene non avevano una grande inclinazione religiosa: «Prima della mia conversione non avevo Chiesa. La mia famiglia era piuttosto indifferente a questi problemi». Entrambi erano liberali sia nelle questioni politiche che in quelle di fede, e, da buoni vittoriani, nutrivano una sconfinata fiducia nei confronti dell’uomo e del progresso. Anche il giovane Graham, cresciuto in un simile clima, trovava la liturgia anglicana interminabile e venne cresimato solamente perché così imponevano le convenzioni.
Ciononostante, complice uno spirito eccezionalmente sensibile, sin da ragazzo iniziò a nutrire un certo scetticismo di fondo, convinto che la felicità fosse effimera mentre il dolore una costante; lo scoppio della Grande guerra non fece altro che confermarlo nelle sue convinzioni.
D’altronde per Greene gli anni della scuola furono a dir poco traumatici, «dove iniziò la miseria della vita». Le angherie dei più grandi, alimentate dal tacito consenso degli insegnanti, lo condussero addirittura sull’orlo del suicidio. Scampò al gorgo autodistruttivo della depressione grazie all’aiuto di un psicologo londinese, Kenneth Richmond, che lo prese in cura e lo ospitò in casa sua, offrendogli un ambiente accogliente e aperto. Le sedute ebbero tra l’altro l’effetto di instillare in Greene il desiderio «di girare ogni pietra per scoprire cosa vi sia sotto, di mettere in discussione le motivazioni, di dubitare».
Lo scrittore, in verità, passò una vita in psicanalisi, ma non si sentì mai veramente guarito e, anzi, prese a considerare la malattia una condizione necessaria della scrittura.
Al netto delle numerose disavventure, gli anni scolastici furono fondamentali per il suo sviluppo intellettuale e spirituale. Gli fornirono materiali e motivazioni per iniziare a scrivere, conducendolo pure a una visione tragica dell’esistenza dove l’innocenza non ha cittadinanza. Fondamentale in tal senso fu la lettura de La vipera di Milano, un romanzo storico di Marjorie Bowen ambientato nell’Italia del XIV secolo: «La bontà», commentò in seguito Greene, «solo una volta ha trovato una perfetta incarnazione in un corpo umano, e ciò non accadrà mai più, ma il male vi può sempre trovare una casa. La natura umana non è bianca e nera ma nera e grigia. […] Il male perfetto commina nel mondo mentre il bene perfetto non vi può più camminare». La futura conversione al cattolicesimo non avrebbe fatto altro che ratificare, con adeguate categorie teologiche, l’essenza di simili intuizioni giovanili.
La scuola e le crudeltà commesse tra le sue mura spinsero inoltre Greene a parteggiare per i più deboli, individuando nella sofferenza comune una potente incentivo alla carità – «Lo scrittore, tanto quanto la Chiesa cristiana, è il difensore dell’individuo» –, e a considerare il vero intellettuale fondamentalmente un ribelle: «Lo scrittore è portato dalla propria vocazione a essere un protestante in una società cattolica, un cattolico in una protestante, a vedere le virtù del capitalismo in una società comunista, e quelle del comunismo in uno stato capitalista. […] La lealtà ti confina all’interno di opinioni accettate, […] ma la slealtà ti incoraggia a vagabondare attraverso ogni mente umana: dà al romanziere un’ulteriore dimensione di comprensione». Il gesuita Robert Southwell, uno dei più importanti martiri elisabettiani, fu uno degli esempi preferiti di quella che lui chiamava “la virtù della slealtà”.
Fu a Nottingham, dopo aver concluso l’università e aver trovato il primo impiego da giornalista, che Greene si fece cattolico, passando con straordinaria rapidità da un vago ateismo alla fede. La decisione, maturata nel 1926, non fu motivata solamente dal desiderio di sposare la “papista” Vivien Dayrell-Browning, ma pure da ragioni intellettuali, dalla «inesplicabile bontà» di padre George Trollope, il suo catechista, e dalla convinzione che tra amore umano e divino esista una profonda connessione. Quest’ultimo punto rimase importante per lo scrittore anche dopo il fallimento del matrimonio, tanto che in relazione a una delle sue amanti, Catherine Walston, per quanto consapevole di riferirsi a un rapporto peccaminoso, arrivò perfino a parlare di un rinnovamento spirituale raggiunto attraverso l’amore fisico.
Vivien fu la causa prossima dell’avvicinamento di Greene alla teologia, ma sin da subito questi trovò in essa interessanti piste di investigazione che volentieri percorse autonomamente. Ad esempio fu molto colpito dal discorso cattolico sul male, letto in relazione ai personali traumi scolastici. Ai suoi occhi la Chiesa di Roma era l’unica a prendere sul serio la questione, certamente più di quella d’Inghilterra che sembrava aver rinunciato alla nozione stessa di peccato originale. Più in generale, il cattolicesimo era per lui «un antidoto forte al mero pessimismo apatico in presenza del male» e il mistero del peccato, come dichiarò nel 1949, fu sempre alla base dei suoi libri.
Del cattolicesimo lo affascinavano pure i sacramenti, in particolare la confessione, così come l’autorità rivendicata dal Papa, punto fermo in un’epoca di relativismo dilagante.
La fede confermò e mutò pure la sua vocazione letteraria. Greene stesso ammise che «la conversione ha aggiunto ai miei libri una nuova dimensione» e che la sottolineatura del senso religioso era ciò che lo distingueva dagli scrittori appartenenti alla scuola modernista (tra i suoi romanzi che affrontano scopertamente tematiche legate alla Chiesa i più noti sono Brighton Rock, Il potere e la gloria, Il nocciolo della questione, Fine di una storia e Un caso bruciato). Nel medesimo tempo, però, convinto che la letteratura non dovesse avere una finalità edificante, che dovesse suscitare nel lettore domande più che risposte, non volle mai essere chiamato “scrittore cattolico”, preferendo definirsi «uno scrittore che accidentalmente è anche cattolico».
Tuttavia l’adesione di Greene al cattolicesimo fu sin da subito viziata dai dubbi, giocata più sull’accettazione di una probabilità che di una verità. Non a caso come nome di cresima scelse quello di Tommaso, non in onore del dottore angelico ma dell’apostolo incredulo, e col tempo finì per trovarsi in disaccordo con diversi insegnamenti della Chiesa, come la dottrina dell’inferno o la proibizione dell’uso dei contraccettivi. A rendere poi la sua posizione particolarmente complessa – o ambigua – è il fatto che, a differenza di altri dissidenti, non abbandonò mai del tutto la fede e continuò a insistere sull’importanza del dogma. Così, ad esempio, dichiarò nel 1979: «Se uno si considera cattolico, ci sono un certo numero di fatti che devono essere accettati».
A ulteriore dimostrazione di un pensiero dai contorni sfuggenti vi sono le critiche che rivolse alla teologia di Teilhard de Chardin e, caso ancora più clamoroso, ai cambiamenti liturgici inaugurati col Concilio Vaticano II. Pur ammirando Giovanni XXIII e di Paolo VI, Greene considerò l’abolizione del latino un attentato alla tradizione e il venir meno di un importante segno di universalità. Parimenti mal digerì le altre alterazioni del rito, compresa la soppressione dell’ultimo Vangelo, sostituito da «preghiere senza fine per gli astronauti o per quello che vuoi tu». Della questione parla diffusamente il romanzo Monsignor Chisciotte, in cui l’eponimo prelato, di mentalità preconciliare, si scontra costantemente col progressista Herrera, esultante per il nuovo corso intrapreso. Perciò non sorprende trovare il nome di Greene tra quello dei firmatari del cosiddetto “Indulto di Agatha Christie” del 1971 e sette anni dopo lo scrittore sottoscrisse volentieri un altro documento analogo.
Greene visse gli anni del cambiamento con rassegnazione, convinto che la Chiesa stesse abdicando alla sua vocazione di argine contro lo spirito del mondo. Profeticamente intuì pure il pericolo della perdita di gran parte del suo potenziale attrattivo: «Il cattolicesimo diventa sempre meno interessante più diventa permissivo». Infine, a salvarlo dall’apostasia, venne in aiuto la distinzione tra elemento umano e divino della Chiesa, la consolazione che in fondo essa non appartenga alla gerarchia ma «al popolo cattolico».









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Fonte immagine: www.telegraph.co.ukcontentdambooks20200829TELEMMGLPICT000237907337_trans_NvBQzQNjv4Bq2Od2-ExcLK2M-K9bgt87B2wQKdlqLurgd891OQQjRCU.jpeg