Dice lo Spirito Santo per bocca del Salmista: “Buona cosa è il confidare nel Signore, piuttosto che confidare nei principi”. Una sentenza che ben s’applica a quanto accadde nell’estate calda del 1870, che leggerete nel testo che segue; una sentenza che deve sempre frenare il cattolico da una sfrenata ammirazione verso alcune monarchie, ricche invero di meriti, ma (in quanto istituzioni umane) anche di demeriti.
Il 9 agosto 1870, il Governo di Baviera diresse ai suoi vescovi una circolare, in forza della quale proibivasi di pubblicare nel regno, senza il regio placet, qualsiasi atto del Concilio vaticano, e specialmente la costituzione affermante l’infallibilità del Papa. Che più? il ministro dei culti, Lutz, ordinò all’università di Monaco di esaminare fra gli altri il quesito, se il Concilio vaticano sia ecumenico! Cionondimeno i vescovi tedeschi, nella lettera collettiva emanata da Fulda sul termine dell’agosto, pubblicarono come obbligatori i decreti di questo Concilio. Il solo Hefele, vescovo di Rottenburgo, non firmò quella lettera, ed anzi continuò a tenersi in corrispondenza col Döllinger; ma egli pure, il 10 aprile 1871, finì con pubblicare i decreti dogmatici e staccarsi completamente dagli avversarii del Concilio.
Le disposizioni a Vienna non erano migliori, giacché, per influsso dei ministri Beust e Stremayr vi si dichiarò abrogato il concordato del 18 agosto 1855, sotto pretesto che una delle parti contraenti, cioè il Papa, si fosse cambiata; e ciò fu notificato il 30 luglio 1870 al card. Antonelli dal segretario dell’ambasciata, Palomba.
Pio IX provava di ciò vero rincrescimento, ma non dubitava punto, che anche questo temporale avrebbe lasciato il sereno. A rettificare poi le erronee opinioni sul dogma dell’infallibilità, dichiarò apertamente nell’udienza del 20 luglio 1871 ai membri dell’Accademia della religione cattolica:
«Tra gli errori, più di tutti è malizioso quello, che vorrebbe ad essa (infallibilità) attribuire il diritto di deporre i Sovrani, e sciogliere i popoli dall’obbligo di fedeltà. Questo diritto senza dubbio è stato talvolta in supreme circostanze esercitato dai Sommi Pontefici, ma esso non ha nulla a fare con la Infallibilità Pontificia. Né la sua fonte è la Infallibilità, ma l’Autorità Pontificia. L’esercizio poi di questo diritto, in quei secoli di fede, che rispettavano nel Papa quel che è, vale a dire il Giudice Supremo della Cristianità, e riconoscevano i vantaggi del suo Tribunale nelle grandi contese dei popoli e dei Sovrani, liberamente si estendeva (aiutato anche, com’era dovere, dal Diritto Pubblico e dal comune consenso dei popoli) ai più gravi interessi degli Stati e dei loro Reggitori. Ma affatto diverse da quelle sono le presenti condizioni; e soltanto la malizia può confondere cose così diverse; cioè l’infallibile giudizio intorno ai principii di rivelazione, col diritto, che i Papi esercitarono in virtù della loro autorità, quando il comun bene lo domandava. Del resto lo sanno meglio di noi, ed ognuno può scorgere il perché si susciti ora una così assurda confusione d’idee, e si mettano in campo ipotesi, alle quali niuno pensa: si mendica cioè ogni pretesto, anche il più frivolo e lontano dal vero, purché sia atto a darci noia, e concitare i Principi contro la Chiesa. Alcuni vorrebbero che lo spiegassi e chiarissi anche più la Definizione Conciliare. Io nol farò. Essa è chiara da sé, né ha bisogno di altri commenti e spiegazioni. A chi legge con animo spassionato il Decreto, il suo vero senso si presenta facile ed ovvio. Però nulla toglie che voi, colla vostra dottrina ed ingegno combattiate quegli errori, che possono gabbare gli illusi e fuorviare gli ignoranti. Dio benedica le vostre fatiche, e le conduca a quel fine, cui sopra tutti gli altri dovete mirare, cioè la diffusione della verità, la gloria di Dio e della sua Chiesa».
da Józef Sebastian Pelczar, Pio IX e il suo pontificato sullo sfondo delle vicende della Chiesa nel secolo XIX, Torino, 1910, vol. II, pp. 536-538.
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