di Luca Fumagalli
Seguendo le piste tracciate da Adam Schwartz nel saggio The Third Spring (2005), quest’anno lo speciale culturale di agosto è dedicato alla storia della conversione di quattro grandi intellettuali del cattolicesimo britannico del Novecento, ossia il giornalista e polemista G. K. Chesterton, il romanziere Graham Greene, lo storico Christopher Dawson e il poeta David Jones. Per quanto diversi tra loro per personalità e sfumature ideologiche, oltre a essere stati figure di spicco nei rispettivi campi, tutti e quattro vissero la fede a cui decisero di aderire con spirito di ribellione, considerandola l’unica alternativa valida a una modernità priva di valori e votata inevitabilmente alla rovina.
Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire la figura di Chesterton e quella di molti altri scrittori del cattolicesimo britannico, si segnala il saggio delle Edizioni Radio Spada Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo. Link all’acquisto.

Definito da mons. Ronald Knox «un profeta in un’epoca di falsi profeti», G. K. Chesterton (1874-1936) è stato uno degli intellettuali cattolici più importanti del secolo scorso. Sebbene dopo gli anni del Concilio Vaticano II il piglio battagliero nei confronti della modernità che caratterizza la sua opera, allora poco à la page, abbia contribuito a una sua parziale messa in ombra, la controtendenza registrata negli ultimi anni, con un profluvio di nuove edizioni e traduzioni anche in Italia, testimonia la fecondità di un polemista capace di descrivere con rara lucidità i mali di un mondo intriso di nichilismo e moralmente alla deriva.
Eppure la strada verso la Chiesa di Roma fu per lui lunga e tortuosa, e per vederlo ufficialmente cattolico fu necessario attendere molto più tempo del previsto.
Se Chesterton ammise di aver sempre nutrito, sin da piccolo, una certa simpatia nei confronti della religione e dei suoi simboli, il contesto nel quale crebbe fu decisamente post-cristiano. I genitori, stando al fratello Cecil, si limitavano infatti a predicare «un vago ma nobile teo-filantropismo». Di conseguenza, nei primi taccuini chestertoniani si riscontra una paradossale alternanza di temi che vanno dall’esaltazione dell’idea di libertà predicata dalla Rivoluzione francese a interessanti intuizioni aurorali circa i pericoli dell’antropocentrismo e l’importanza del dogma.
Più tardi, alla Slade School of Art, un bastione del progressismo culturale, Chesterton visse quello che in seguito definì «il mio periodo di follia»: nel tentativo di trovare una qualche risposta convincente a un’esistenza apparentemente caotica e contraddittoria, si avvicinò dapprima allo spiritismo, poi, attraverso lo studio dell’impressionismo pittorico, venne in contatto con il pessimismo e con quel decadimento dei costumi frutto della separazione tra estetica e morale predicata, tra gli altri, dal critico George Moore.
A venirgli in aiuto, salvandolo da se stesso e dal gorgo autodistruttivo in cui si era infilato, furono i libri di tre autori, ossia Robert Browning, Robert Louis Stevenson e Walt Whitman, i quali ebbero il merito di insegnargli un gusto per le cose cha ha origine nel principio di gratitudine, radice delle sue future speculazioni e dell’avvicinamento al cattolicesimo: «Il mio primo impulso a scrivere, e quasi il mio primo impulso a pensare, è stato un moto di disgusto nei confronti dei decadenti e del pessimismo estetico degli anni Novanta». Da qui, similmente a Pascoli, deriva l’elogio del fanciullo, che guarda ogni cosa con occhi pieni di meraviglia, e dell’“uomo comune”, fedele al buonsenso a differenza della maggior parte degli intellettuali.
Nel 1908, con L’uomo che fu Giovedì, Chesterton usò la propria vicenda di sofferenza e riscatto come una sorta di allegoria culturale. Il romanzo descrivere un malessere che, da personale, diventa collettivo, affliggendo l’intera società. L’equazione tra anarchici e artisti, poi, non ha nulla a che fare con la politica, ma sottolinea ancora una volta la perdita dei valori tradizionali che caratterizza la cultura moderna. Oltre a ciò, c’è spazio anche per interessanti riflessioni sulla virtù dell’umiltà e sul senso del dolore.
La fine dell’esperienza alla Slade School e l’ingresso nel mondo dell’editoria e del giornalismo anticiparono di poco l’incontro con Frances Blogg, la futura moglie. Una delle cose di lei che più piacque a Chesterton era la fede profonda, di marca anglo-cattolica, praticata con sincera devozione. A influenzarlo profondamente in questo periodo fu pure Conrad Noel, il curato che li sposò nel 1901. Quest’ultimo levò a Chesterton ogni pregiudizio circa la natura anti-intellettuale della religione, rivelandogli, anche grazie al suo piglio ribelle e alla grande abilità nei dibattiti pubblici, la profonda ragionevolezza della fede.
Per quanto ormai convinto della bontà del messaggio cristiano e tentato dalle idee dell’ala conservatrice dell’anglicanesimo, Chesterton era ancora alla ricerca di certezze e seguitava a definirsi prevalentemente per via negativa. Lo dimostra perfettamente il saggio Eretici (1905) in cui l’autore si limita a mettere alla berlina alcuni capisaldi del pensiero post-cristiano, senza la pretesa di dare delle risposte. Ne seguì un acceso dibattito che culminò con un invito a mettere nero su bianco quello in cui davvero credeva. Nacque così Ortodossia (1908) in cui finalmente appare uno schema religioso nitido, ispirato a quel “realismo cristiano” di stampo tomista basato sull’immagine di un Dio che si fa carne. Ne risulta che solo il cristianesimo è «la filosofia della sanità mentale», essendo capace di preservare «questo equilibrio di apparenti contraddizioni che è stato l’intero assetto dell’uomo sano»; suo degno araldo non può allora che essere il giullare, ovvero l’esatto opposto del profeta post-moderno, nulla più di un folle monomaniacale.
A questo punto, data una prima sistemazione coerente del suo pensiero, a Chesterton non rimaneva che capire quale, fra le chiese, fosse la più ortodossa.
L’ultima fase della sua odissea spirituale, quella verso Roma, fu innanzitutto favorita dalla vicinanza del compare di sempre Hilaire Belloc, del sacerdote John O’Connor, dell’apologeta Wilfrid Ward e di tanti altri amici e conoscenti cattolici, nonché di due recenti convertiti come il romanziere Maurice Baring e il fratello Cecil.
I primi segnali di una fascinazione crescente datano 1909 e sono riscontrabili tanto nel dibattito giornalistico col modernista Robert Dell, in cui Chesterton si ritrovò a difendere i dogmi della Chiesa cattolica contro un suo stesso membro, quanto nel romanzo La sfera e la croce.
Altri momenti decisivi furono la malattia quasi mortale che lo colpì tra il 1914 e il 1915 e che gli fece accarezzare l’ipotesi del battesimo, il viaggio a Gerusalemme del 1919 – con tappa a Brindisi sulla via del ritorno, durante la Pasqua – e la Conferenza di Lambeth del 1920, in cui la Chiesa d’Inghilterra mostrava di avere una scarsissima autorevolezza e, soprattutto, di covare una malsana tendenza ad allinearsi alla modernità: «Non parla con forza. Non ha un’unità d’azione. Non mi serve a niente una Chiesa che non sia una Chiesa militante, che non sappia ordinare battaglia, mettersi in linea e marciare nella stessa direzione».
Nel frattempo il suo desiderio di autorità aveva ormai trovato nel Papa una certezza e la Chiesa di Roma aveva abbondantemente dimostrato di essere l’unica a non voler venire a patti con gli umori del mondo, mantenendo intatto il depositum fidei: «La Chiesa cattolica», scriverà Chesterton in seguito, «è l’unica cosa che salva un uomo dalla schiavitù degradante di essere un figlio del proprio tempo».
La conversione al cattolicesimo appariva ormai cosa fatta, ma dovettero passare ancora un paio d’anni prima che Chesterton si decidesse, trattenuto dal dolore che la cosa avrebbe certamente causato alla moglie, convinta anglicana. Venne infine battezzato sotto condizione da Padre O’Connor e da Dom Ingatius Rice il 30 luglio del 1922. Per lui, dantescamente, fu l’inizio di una nuova vita, una vera e propria resurrezione celebrata nel verso di una sua poesia: «Perché il mio nome è Lazzaro e sono vivo».
Da “autore cattolico” lo stile e le idee non mutarono affatto, confermandosi una penna scoppiettante di paradossi e un brillante apologeta. Come ultima consolazione, nel 1926 Frances decise di farsi cattolica, volendo rimanere a fianco del marito anche in quest’ultima, straordinaria avventura.









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Fonte immagine: parziale riproduzione della copertina di G. K. CHESTERTON, L’uomo Comune (Lindau, 2023).