O scopritor famoso,
segui; risveglia i morti,
poi che dormono i vivi; arma le spente
lingue de’ prischi eroi; tanto che infine
questo secol di fango o vita agogni
e sorga ad atti illustri, o si vergogni.

Giacomo Leopardi,
Ad Angelo Mai quand’ebbe trovato i libri di Cicerone “Della Repubblica”,
175-180

Gigante della filosofia ed esempio mirabile dell’intima unione fra la Fede e le scienze, Angelo Mai nacque a Schilpario, in provincia di Bergamo, il 7 ottobre 1782. Compiuti gli studi elementari, già brillante per ingegno, entrò nel Seminario di Bergamo, quindi, chiuso questo dai francesi invasori nel 1799, nel noviziato gesuita a Colorno presso Parma. Prese l’abito di sant’Ignazio nel 1804 a Napoli e vi rimase fino al 1806 zelando la ricostituzione in loco della Compagnia di Gesù, in via di ristabilimento. In quello stesso anno ricevete il sacerdozio ad Orvieto. In questo stesso periodo coltivò la lingua greca e fu iniziato allo studio dell’ebraico da due confratelli spagnoli, i padri Monteno e Menchaca. Da essi apprese anche l’arte della lettura dei palinsesti [1], la cui padronanza lo avrebbe reso famoso negli anni successivi. Nel 1810 fu ammesso tra gli scrittori della Biblioteca Ambrosiana, dove rimase nove anni, riportando alla luce preziosi frammenti e versioni di Isocrate, Dionigi d’Alicarnasso, Cicerone, Antonino Pio, Appiano, Marco Aurelio, Lucio Vero. Nel 1819 Pio VII lo richiamò a Roma e lo nominò Primo Custode della Biblioteca Vaticana. Dello stesso anno è il ritrovamento che gli meritò, oltre alla canzone leopardiana, la fama eterna: il ritrovamento del De re publica di Cicerone in un palinsesto contenente un testo di sant’Agostino. In Pio VII si era finalmente adempiuto il desiderio di Clemente VI e nel Mai le incessanti ricerche del Petrarca, di Poggio, di Bessarione e del Pole. Nel 1822 pubblicò la sua edizione dell’opera ciceroniana. Come premio di tanto valore, cui fu sempre unità la onestà della vita e della condotta ecclesiastica, fu fatto oggetto della benevolenza dei Sommi Pontefici: Pio VII lo nominò Canonico della Patriarcale Basilica di San Pietro e il successore Leone XII suo Prelato Domestico e Protonotario Apostolico. L’ascesa della gerarchia ecclesiastica non lo allontanò dalla filologia: anche dopo la sua nomina a Segretario di Propaganda Fide nel 1833, che significò la conclusione della prefettura della Vaticana, continuò infatti a riportare alla luce inediti di inestimabile pregio. Grazie al Mai e alla pubblicazione delle sue scoperte – Scriptorum veterum nova collectio, Classici auctores ex codicibus vaticanis, Specilegium romanum, Nova Patrum bibliotheca – “nuovi e più larghi orizzonti si dischiusero alla storia della Chiesa non che degli Stati, di nuove gemme si arricchì la letteratura Patristica, e nuovi sussidî vennero alla Ermeneutica sacra, alla Esegesi, alla Liturgia, alla Critica, al Diritto Canonico non solo dell’Occidente, ma anche al Caldeo, al Siro, all’Armeno e poté venir dimostrato in modo più luminoso il primato della Sede Romana e l’antico consenso dell’Oriente e dell’Occidente innanzi allo scisma di Fozio” [2]. Gregorio XVI, nel concistoro segreto del 19 maggio 1837 lo creò e riservò Cardinale in pectore, pubblicandolo solo nel concistoro segreto del 12 febbraio 1838 e assegnandogli il Titolo di sant’Anastasia. Nel 1843 fu nominato Prefetto della Congregazione dell’Indice dei Libri Proibiti, carica che gli fu confermata dal successore di Gregorio XVI, PIo IX, e che tenne fino al 1848. In questo stesso anno fu fatto Prefetto della Congregazione per la correzione dei libri della Chiesa Orientatale, incarico che tenne fino al 1851 quando fu nominato Prefetto della Congregazione del Concilio. Nel 1853 infine fu nominato Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa. Sempre intento allo studio, morì a Castel Gandolfo il 9 settembre 1854, compianto da tutti. L’epitaffio che lui stesso scrisse ce ne rivela la pietà di vero ecclesiastico e l’origine più vera del suo lavoro scientifico: Cristo.

Qui doctis vigilans studiis mea tempora trivi,
Bergomatum soboles, Angelus hic iaceo.
Purpureum mihi syrma dedit rubrumque galerum
Roma; sed empireum das, bone Christe, polum.
Te spectans longos potui tolerare labores,
Nunc mihi sit tecum dulcis et alta quies.

Io, Angelo, prole bergamasca, che vegliando in dotti studi spesi i miei anni, qui giaccio. Roma mi diede la veste purpurea e il rosso galero, ma tu solo, o Cristo buono, mi dai l’empireo. Solo fissando in te i mei sguardi potei sostenere le lunghe fatiche: ora in tua compagnia vi sia per me una quiete dolce e profonda“.

Giuliano Zoroddu


[1] Per palinsesto (dal greco παλίμψηστος «raschiato di nuovo») si intende un manoscritto antico, su papiro o, più frequentemente, su pergamena, il cui testo originario è stato cancellato mediante lavaggio e raschiatura e sostituito con altro (vedi voce su treccani.it)
[2] Benedetto Prina, Biografia del cardinale Angelo Mai, pubblicata in occasione del I centenario celebrato in Bergamo il giorno 7 marzo 1882, Stabilimento Tipo-Lit. Gaffuri e Gatti, 1882, p. 71.


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