“Sempre, quando nella Chiesa si vuole staccare il cammino di comunione, quello che stacca sempre è l’ideologia. E accusano la Chiesa di questo o di quell’altro, ma mai la accusano di quello che è vero: peccatrice. Mai dicono peccatrice…“. Con queste parole Bergoglio, di ritorno dalla Mongolia, ha riproposto uno dei mantra della gerarchia modernista e dei suoi teologi: la Chiesa è “santa e peccatrice”. Questa tesi, che ha due grandi banditori in Hans Urs von Balthasar e Giovanni Paolo II (con i suoi compulsivi mea culpa), abusa di una espressione, perfettamente ortodossa, di Sant’Ambrogio, che chiama la Chiesa “casta meretrix” (meretrice casta). La storia dell’abuso e la sua confutazione fu fatta tra la fine degli Anni Novanta e i primi Duemila dal card. Biffi, di cui riportiamo a edificazione del Lettore alcuni brani tratti da un magistrale articolo sul tema.
Testo integrale su cooperatores-veritatis.org
Casta meretrix è un sorprendente oximoron (“espressione antinomica”); tanto più sorprendente perché è abitualmente riferito alla Chiesa. Dopo l’ambigua utilizzazione di Hans Urs von Balthasar (in Sponsa Verbi, Brescia, 1985) esso gode di una discreta fortuna. Ogni tanto me lo sento ricordare, con la soddisfazione di chi è certo di addurre un’argomentazione decisiva allorché dichiaro incautamente la mia convinzione che alla Chiesa come tale non si possa assegnare l’epiteto di “peccatrice”. «Ma se la Chiesa – mi si ribatte – è una “casta meretrix”, come dicono i Padri!». È così enfatico l’accento posto sul sostantivo, che l’aggettivo che l’accompagna passa in seconda linea. «Come dicono i Padri».
Dir male della Chiesa (che nessuna antica professione di fede si dimentica di chiamare «santa») non è mai stato ritenuto nell’ascesi cristiana un atto particolarmente meritorio. È piuttosto da sempre l’inveterata consuetudine degli “altri”, cioè dei non credenti. È consentito ai buoni fedeli , associarsi al coro dei maldicenti, magari per favorire un dialogo aperto e costruttivo? I più timorati non ne troverebbero il coraggio se non potessero aggiungere appunto: «Come dicono i Padri».
A sentirli, si direbbe che ci sia quasi un consenso universale; che nessuno dei grandi maestri di fede dei primi secoli si sia dimenticato di attribuire alla Chiesa questo titolo pittoresco: che la denominazione casta meretrix sia un punto irrinunciabile di tutta l’ecclesiologia tradizionale …
Salvo miglior giudizio, è uno solo: Ambrogio. Nessuno ha parlato di “casta meretrix” prima di lui, e nessuno dopo di lui, tra i Padri, l’ha imitato.
Ambrogio ha usato questa espressione una sola volta, nella sua meditazione su Rahab, la donna di Gerico di cui parla il libro di Giosuè. Essa – egli dice – «nel simbolo era una prostituta ma nel mistero era la Chiesa, congiunta ormai ai popoli gentili per la comunanza dei sacramenti» (In Lucam VIII,40).
L’utilizzazione “tipica” di Rahab – personaggio contraddittorio, cui era attribuita sia una professione indegna sia un’azione lodata e provvidenziale – era già un classico della letteratura cristiana. Il Vangelo di Matteo l’aveva ricordata nella genealogia di Gesù (cfr. Mt 1, 5). La lettera agli Ebrei l’aveva portata come esempio della fede che salva (cfr. Eb 11, 31). San Giacomo, preso da altre preoccupazioni teologiche, aveva messo in risalto la sua giustificazione ottenuta con le opere, cioè con la buona azione a vantaggio degli esploratori ebrei (cf. Gc 2,25). Clemente Romano, quasi a sintesi e conciliazione dei due testi, aveva scritto: «Per la sua fede e la sua ospitalità Rahab la meretrice fu salva» (I ad Corinthios 12, 1).
Dopo Clemente, che si sofferma a lungo sull’episodio di Gs 2,1-21, leggendolo alla luce della redenzione operata da Cristo (cfr. I ad Corinthios 12, 1-8), era andata chiaramente delineandosi – da Giustino a Ireneo a Origene a Cipriano – una decisa interpretazione ecclesiologica della figura di Rahab. E proprio dalla riflessione sulla “casa della prostituta” – la sola in Gerico che ha preservato dalla morte – emerge il famoso principio che «fuori della Chiesa non c’è salvezza».
«Nessuno potrebbe illudersi al riguardo – scrive Origene – nessuno può ingannarsi: fuori di questa casa, cioè fuori della Chiesa, non c’è salvezza» (Om. in Iosue 3,4). E Cipriano: «Credi tu di poter vivere, se ti distacchi dalla Chiesa edificandoti altre case e diversi alloggi, mentre a Rahab, prototipo della Chiesa, viene detto: ognuno che lascerà la porta della tua casa sarà colpevole?» (De unitate eccesiae, 8). In Cipriano il principio extra Ecclesiam nulla salus viene collegato con la verità della maternità della Chiesa: «non può avere Dio per padre, chi non ha la Chiesa per madre» (De unitate ecclesiae 6).
Ambrogio nella sua riflessione ha presumibilmente sottocchio soprattutto il commento di Origene. Ma il suo pensiero si sviluppa in maniera molto personale.
«Rahab – che nel tipo era una meretrice ma nel mistero è la Chiesa – indicò nel suo sangue il segno futuro della salvezza universale in mezzo all’eccidio del mondo: essa non rifiuta l’unione con i numerosi fuggiaschi, tanto più casta quanto più strettamente congiunta al maggior numero di essi; lei che è vergine immacolata, senza ruga, incontaminata nel pudore, popolare nel suo amore, meretrice casta, vedova sterile, vergine feconda» (In Lucam III, 23).
Questo è l’unico passo dove compare la nostra espressione; e merita un commento ravvicinato.
Typo meretrix mysterio ecclesia. Si vuol dire che l’attività meretricia appartiene alla “figura”, non alla realtà figurata. Non si possono dunque fare frettolose trasposizioni dal “tipo” all’”antitipo”; bisogna prima chiarire in che senso e sotto quale profilo il paragone possa essere istituito.
Multorum convenarum copulam non recusat. Il chiarimento arriva immediatamente: la Chiesa può essere simbolicamente ravvisata nella donna di Gerico, soltanto perché non si rifiuta di unirsi alla moltitudine dei “fuggiaschi”, cioè di quanti – dispersi e disorientati nella città mondana – cercano presso di lei riparo dalla perdizione. Tutti li accoglie per tutti salvarli.
Quo coniunctior pluribus eo castior. C’è però una differenza fondamentale. La condiscendenza con cui la Chiesa dischiude la sua porta a tutti, come fanno le donne di costumi troppo facili, non solo non comporta in lei niente di riprovevole, ma indica addirittura fedeltà alla propria missione (e quindi al suo Sposo che gliel’ha assegnata).
Immaculata virgo, sine ruga, pudore integra. Quasi a prevenire qualunque equivoco che potesse nascere da un paragone innegabilmente audace, è evocato qui (e perfino oltrepassato) l’appassionato linguaggio di Paolo quando esalta «la Chiesa senza macchia né ruga né alcunché di simile» (Ef 5, 27). È da notare che nel testo di Ambrogio non si tratta della condizione escatologica cui il Signore vuoi portare la sua Sposa. «Immaculata virgo, sine ruga, pudore integra» è per il vescovo milanese proprio la Chiesa che, camminando nella storia, accoglie e salva gli uomini che oggi sono «sbandati» («convenae»).
Amore plebeia (“popolare nell’amare”). L’espressione è un po’ avventurosa, ma ricca di una intensità che la rende quasi intraducibile. “Plebeius” negli scrittori latini è vocabolo che ha sempre almeno una sfumatura di spregio. Che abbia potuto venire adoperata da un patrizio di eccellente cultura romana per qualificare la Sposa di Cristo, basta a significarci la novità “democratica” davvero rivoluzionaria portata dal cristianesimo. La Chiesa è “plebeia” nel suo amore; vale a dire, non c’è niente di aristocraticamente esclusivo nelle sue attenzioni, che sono rivolte a tutti senza distinzione. O, se ci sono preferenze, sono casomai per i semplici, gli umili, i poveri. Ambrogio, si sa, aveva un po’ in antipatia le condizioni di privilegio, tanto che ha potuto scrivere: «Nessuno presuma, perché è ricco, che gli si debba maggior ossequio. Nella Chiesa è ricco chi è ricco di fede» (Ep. Extra coli. 14, 86).
La meditazione ecclesiologica ambrosiana si avvale in quel brano di tre immagini, da considerarsi simultaneamente se si vuol attingere la profondità del mistero. La Chiesa è al tempo stesso prostituta, vedova, vergine: «meretrix casta, vidua sterilis, virgo fecunda». E ci viene subito offerta una limpida spiegazione di queste tre qualifiche La Chiesa è «meretrice casta, perché molti amanti la frequentano per le attrattive dell’amore ma senza la contaminazione della colpa».
La Chiesa è «vedova sterile, perché in assenza del marito non sa generare (ma poi il marito è giunto, e così ella ha generato questo popolo e questa “plebe”)». La Chiesa è «vergine feconda, perché ha partorito questa moltitudine, come frutto del suo amore, non però per intervento di concupiscenza» (In Lucam III, 23).
Nel suo significato originario, dunque, l’espressione casta meretrix, lungi dall’alludere a qualcosa di peccaminoso e di riprovevole, vuole indicare – non solo nell’aggettivo ma anche nel sostantivo – la santità della Chiesa; santità che consiste tanto nell’adesione senza tentennamenti e senza incoerenze al suo Sposo (casta) quanto nella volontà di raggiungere tutti (secondo il compito che le è stato affidato dal suo Signore) per portare tutti a salvezza (meretrix).
🔴 Le note della Chiesa militante. «Credo la Chiesa santa» di don Gabriele D’Avino FSSPX (La Tradizione Cattolica Anno XXVI – n°2 (95) – 2015)
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