di Luca Fumagalli

Sebbene lo scrittore scozzese George Mackay Brown (1921-1996), originario delle isole Orcadi, sia ricordato oggi prevalentemente per la produzione in prosa – racconti, romanzi, saggi, articoli e pièce teatrali –, la sua fu anche una delle voci più potenti e originali della poesia britannica del secondo Novecento.

Del resto la carriera letteraria di Brown era germogliata proprio in ambito poetico grazie al supporto di Edwin Muir, amico e mentore. Se la sua passione per i libri si era accesa con la lettura della Orkneyinga Saga e le ballate scozzesi, The Story and the Fable di Muir gli offrì una lezione fondamentale, ossia che l’artista è chiamato a non fermarsi all’apparenza delle cose, dovendo descrivere piuttosto l’essenza della realtà.

A un altro saggio di Muir, il provocatorio John Knox: Portrait of a Calvinist, va invece il merito, insieme ad Apologia Pro Vita Sua del cardinale Newman e ai romanzi di Fionn MacColla, di avere spinto Brown a rinnegare la cultura calvinista nella quale era cresciuto e ad abbracciare successivamente il cattolicesimo.

Questo cambiamento, oltre a fornire all’autore tutta una serie di temi e di immagini per la scrittura – il culto mariano, la Via Crucis, la liturgia, il numero sette ecc. – ebbe soprattutto il merito di spingerlo a riconsiderare la sua visione delle Orcadi secondo una prospettiva sacramentale. Ciò significa che quando Brown descrive il lavoro dei pescatori e dei contadini, i riti della vita quotidiana e le stagioni, dà prova di un’ispirazione metafisica che, adottando l’indeterminatezza del simbolo, rinnova «il linguaggio specifico delle Orcadi – persone e luoghi – in un idioma di relazione universale» (così Cáit O’Neill McCullagh). Ecco perché un ammiratore d’eccezione come il premio Nobel Seamus Heaney apprezzava in particolare la capacità di Brown di «trasformare ogni cosa facendola passare attraverso la cruna d’ago delle Orcadi».

La celebrazione della natura e i riferimenti alle saghe norrene fanno anch’essi parte del tentativo browniano di abbattere i confini spazio-temporali in una comunione tra le creature e il Creatore che ha il sapore dell’eterno. Il suo scopo, anche quando impiega il punto di vista del personaggio emarginato, rimane quello di farsi co-creatore, di «mantenere in riparazione la sacra trama della creazione […] in nome dell’umanità».

Da queste considerazioni preliminari scaturisce un modello comunitario che non è altro che la Chiesa stessa, un’unità nella diversità identificata con l’immagine simbolica dell’arazzo. Brown racconta di un legame che trascende il mero piano giuridico e che riguarda non solo i vivi ma anche i morti, non solo il presente ma anche il passato e il futuro; e da amante di isole, ripeteva spesso che «nessun uomo è un’isola».

D’altro canto, la minaccia più grave per l’ordine naturale e divino è il Progresso. In An Orkney Tapestry Brown scrive: «C’è una nuova religione, il Progresso, nella quale tutti noi crediamo devotamente, ed è interessata solo alle cose materiali del presente e ad un vago futuro […]. È una fede utilitaristica senza radici, senza bellezza né mistero». Il Progresso è identificato dallo scrittore con la somma di tutte le forze centrifughe della modernità, dalla tecnologia che schiavizza al disprezzo della storia, dall’individualismo alla brama di denaro. Il risultato è un’esaltazione egoistica che finisce per minare inevitabilmente le fondamenta della comunità, un esempio opposto a quello di San Magnus, patrono delle Orcadi, che rinunciò alla propria vita per garantire al popolo un futuro radioso.

Tutti questi temi – e altri ancora – finirono per confluire anche nella produzione poetica di Brown che in totale firmò oltre quattrocento liriche suddivise in una quindicina di raccolte. Nell’insieme lo scozzese si dimostra un rimatore versatile, le cui virtù principali sono la chiarezza formale e un’impressionante padronanza della musicalità delle parole. Secondo Alan Bold, autore di un saggio pionieristico su Brown, nelle sue poesie egli fu influenzato «dai ritmi intimi ed elastici di Hopkins, dal tono ecclesiastico del tardo Eliot, dalla densità metaforica di Dylan Thomas, dalla rassegnazione malinconica (completata con il ritornello) e dall’iconografia (con tanto di ambulanti) di Yeats».

Ora, grazie alla meritoria casa editrice Interno Poesia, una selezione delle migliori liriche di Brown è stata tradotta per la prima volta in italiano: il risultato è Incidere le rune, un volume brillante, curato da Giorgia Sensi, che vanta pure una prefazione scritta per l’occasione da Kathleen Jamie, già responsabile dell’edizione inglese del 2021 (il titolo si rifà alla poesia “Un lavoro per i poeti”: «Ecco un lavoro per i poeti – / incidere le rune / poi accettare il silenzio»). Si tratta di una raccolta ben bilanciata, che offre una panoramica soddisfacente della produzione lirica di Brown, un autore che seguita purtroppo a essere poco conosciuto e che invece, per lucidità di sguardo e forza profetica, meriterebbe una maggiore considerazione.

Si spera quindi che Incidere le rune sia solo l’inizio di un provvidenziale lavoro di riscoperta e che altre opere dello scrittore orcadiano, sia in versi che in prosa, possano finalmente approdare sugli scaffali delle librerie italiane.  In un’epoca come questa, segnata dal dubbio gusto e dalla mediocrità, ne abbiamo davvero bisogno.

Il libro: George Mackay Brown, Incidere le rune, Interno Poesia, 2023, 164 pagine, 15 Euro.

Link all’acquisto: https://internopoesialibri.com/libro/incidere-le-rune/



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