di A. Giacobazzi

Ciò che più colpisce nell’attuale dibattito sulla situazione del Vicino Oriente è il suo essere sostanzialmente immutato rispetto a decenni fa. È vero: alcuni elementi che determinano le singole posizioni hanno uno stretto rapporto se non con l’Eternità, almeno coi destini penultimi dell’uomo. Questo tende a stabilizzare il discorso; ma è la semplificazione sloganistica, decontestualizzante, rissaiola a balzare all’occhio. Insopportabile è poi il perenne obbligo non scritto di immedesimarsi toto corde con una delle parti in causa, poco importa che si tratti di mondi verso i quali non si ha alcuna necessità di identificazione (religiosa, politica, nazionale, anche solo geografica).

Da «o con gli afgani o col Pentagono» (poi sarebbe da capire quali afgani, perché alcuni – anche decisamente islamici – erano parecchio graditi a Washington), fino ad un più recente «o con Obama, o con Romney», prospera il regno delle false alternative (qui un approfondimento, ndr). Un dominio che si può estendere fino a «o con Trotsky, o con Stalin», il primo picconato dagli emissari del secondo.

È il campo di un pragmatismo deforme, moderno, totalitario senza totalità, che esige una continua adesione in negativo a questa o quella causa, puntualmente dettata dall’agenda del momento. Una direttiva ad abbracciare ciò che è altro da sé, figlia di una lettura nichilistica della realtà, per cui le azioni sono valide solo in funzione di ciò che distruggono, o piuttosto che sembrano distruggere. Non un’affermazione, ma un’invadente negazione. La presente anti-civiltà del cosa odio, contrapposta all’eterna civiltà del cosa amo.

È pacifica l’esistenza di una gradazione del male anche negli esempi riportati, ma è altrettanto pacifica l’assenza di necessità – fatti salvi casi eccezionali – di unirsi sempre e comunque al presunto male minore. Si può detestare l’azione dei tagliagole islamici senza identificarsi coi coloni della Cisgiordania, si può provare una pena profonda nel vedere Gaza rasa al suolo senza diventare i portabandiera di Hamas.

È inoltre semplicemente assurdo che si richieda a chiunque, quasi a professione di fede genuinamente democratica, che prima di iniziare ogni ragionamento si ripeta una pleonastica condanna del terrorismo. Chiunque abbia un minimo di lucidità non ne può prendere le parti, come non vi è chi non veda (ipnotizzati e teledipendenti esclusi) che queste ridondanti professioni altro non sono se non l’anticamera d’ammissione per uno schema dialogico preconfezionato, una gabbia da pseudodibattito. 

Giro l’esempio in positivo: sono riconoscente per la tutela dei luoghi e delle comunità cattoliche portata avanti dal governo siriano e ritengo che il piano per l’abbattimento di quell’esecutivo nel quadro delle primavere arabe sia stata un’idea a dir poco sciagurata, ma questo non significa che mi debba associare nel presente, nel passato e nel futuro, stile cambiale in bianco, a qualsiasi scelta di quel Paese. Nell’aderire o nel rifiutare un’adesione vale sempre il principio di prossimità. Per uscire dalla polarizzazione artificiale bisogna dunque tentare di evitare gli schemi riduttivi e gli equivoci.

Un’ultima premessa: mi scuso coi lettori se in alcuni passaggi ripercorrerò temi già affrontati in Anche se non sembra o in altri libri, ma, come scritto all’inizio, una parte della questione è metastorica, dunque non riducibile all’attualità. Cercherò di essere breve, sperando di non far troppo torto agli argomenti trattati. Il pezzo può essere letto tranquillamente a rate, ammesso che ne si abbia voglia.

Complessità della politica internazionale ed echo chamber

Vi è un livello del dibattito che si colloca ad uso e consumo dei grandi numeri coperti da media e social. È spesso inconcludente, ripetitivo, pavloviano. L’utente o l’ascoltatore medio, nel contesto tendenzialmente omologante del mondo digitale, entra nella sua echo chamber di riferimento dove le idee preesistenti vengono amplificate senza una via di fuga praticabile. Lo scontro tra tifosi che pensano di incidere sulla società sbraitandosi addosso vicendevolmente, dà la cifra del tracollo nella percezione del reale. Siamo oltre la post-verità: ci troviamo nella post-realtà. Non è solo il noto meccanismo dello scontro effimero (ma per altri versi «utile» alla neutralizzazione di ogni eventuale avanzamento nella consapevolezza e nella formazione di chi vi prende parte), c’è di più: siamo davanti alla sua digitalizzazione alienante.

Il principale catalizzatore di tutto questo è certamente l’oblio delle connessioni e delle interessenze che si trovano a un livello più profondo della questione, spesso ignorato dall’informazione di massa. USA-UK-Israele vs Russia-Iran-Palestina, è semplicemente un mito confezionato male. Certo, come tutti i miti ha qualche elemento di realtà, ma resta pur sempre un mito, almeno se proposto in termini assoluti. Basterebbe conoscere vagamente i rapporti russo-israeliani (anche odierni) per farlo saltare.

Ma facciamo un breve viaggio nella storia. Il «progetto statale ebraico» è passato nella sua implementazione, già prima della nascita, dal rapporto altalenante con la potenza mandataria britannica (non senza accordi logistico-commerciali tra l’organizzazione sionista e la Germania nazionalsocialista) fino – nel momento della «proclamazione dell’indipendenza» – all’aiuto determinante sul piano politico e militare dell’URSS staliniana; si è poi consolidato nel rapporto con USA e alleati, con relazioni tutt’altro che lineari, e molto ricche di parentesi. Prima della guerra si trovò nella destra sionista-revisionista una componente apertamente simpatizzante col fascismo italiano, che nel mazzo delle sue carte mediterranee non mancò di giocarne qualcuna gradita ai pionieri di Tel Aviv, ovviamente senza compromettersi troppo i rapporti col mondo arabo. Un dedalo, quello degli arabi, dalle mille tinte, tra cui l’inevitabile color bruno, certamente gradito al Gran mufti di Gerusalemme, Amin al-Husseini, che passava in rassegna le SS bosniache con tanto di braccio teso. Nulla di eccezionale per l’epoca, se si considera che era qualche anno dopo l’accordo nazi-comunista Molotov-Ribbentropp. Parafrasando una nota citazione: è la politica internazionale, bellezza! Altissimi ideali impastati con bassissimi interessi.

Ma non si confonda il lettore: si è parlato di parentesi e nel Vicino Oriente le parentesi non sono solo tonde, ma quadre e graffe, se si pensa che persino l’Iran della rivoluzione islamica ai tempi dell’Iran-Contras trafficò armi con gli USA. Israeliani, statunitensi, iraniani, iracheni, sovietici videro i loro interessi incrociarsi e separarsi nell’interminabile guerra imposta (1980-1988) che vide sfidarsi Teheran e Baghdad, lasciando sul campo oltre un milione di morti. Tutti siedono da sempre a tutti i tavoli presso cui è possibile stare: le curve dello stadio si scannano e le dirigenze sportive ora si osservano, ora si parlano, ora giocano di sponda.

Questi, sia chiaro, sono solo piccoli esempi: si potrebbe continuare per decine di pagine (pensiamo solo alla lotta tra baathisti Siria vs Iraq, o al labirinto libanese). Prima di passare oltre, però, permettete due parole su Hamas e sul terrorismo islamico.

La questione dell’origine di Hamas e dello sguardo indulgente di Tel Aviv sulla sua crescita è da lungo tempo sul tavolo di storici e analisti qualificati. Negli ultimi anni Antonio Ferrari del Corriere della Sera e Alberto Negri de Il Manifesto hanno toccato il tema con parole forti. Polarizzazione, delegittimazione del resto del fronte palestinese, carburante ideologico-emotivo che viaggia in entrambe le direzioni: di fatto questi sono i risultati dello scontro crescente. Poi, andando oltre le azioni di questo gruppo, vi sono delle «simpatie» mediatiche per certa violenza islamica, che godono di intensità a targhe alterne. Ad esempio, quando la ferocia di gruppi vicini al terrorismo si manifesta contro la Siria di Assad si chiude un occhio e si parla di resistenza siriana. Per non dire di interi Paesi che sui nostri giornali passano dalla lista dei tutori dell’ordine in un quadro regionale, a stati canaglia – e viceversa – con frequenza da ritmo di tamburo.

In sintesi: prima di scegliere una tifoseria, meglio conoscere la squadra.

Comprensione delle identità in campo: la vexata quaestio antisionismo-antisemitismo

Uno dei mantra che riemerge quando si riaccendono i fari sul Vicino Oriente è l’identificazione antisionismo-antisemitismo. Il discorso può essere preso sul serio nei salotti televisivi europei, resta tuttavia sconsigliabile portarlo avanti in altri luoghi. Ad esempio parrebbe inopportuno presso Mea Shearim, uno dei più antichi quartieri ebraici di Gerusalemme, dove qualche tempo fa campeggiava uno striscione con scritto «Vietato l’ingresso ai sionisti».

Chiunque abbia anche solo qualche nozione superficiale della materia sa bene che il sionismo nacque con una non trascurabile opposizione dell’ebraismo religioso e che sebbene le cose si siano ammorbidite in seguito, restano gruppi larghissimi di haredim, anche all’interno dei territori dello stato israeliano, schiettamente contrari a questo progetto politico. 

Ma la cosa vale anche se vista dal lato opposto. Il sionismo, pur nelle sue mille sfaccettature, predicava – in particolare nell’Europa centrale e orientale – un ebreo nuovo, legato alla terra e alla agricoltura, contrapposto all’ebreo della diaspora; militare e patriottico, in opposizione al vecchio ebreo sradicato dalla terra dei suoi padri. Vincenzo Pinto affronta il tema ricordando un intervento significativo: «Nel 1995 Anita Shapira, uno dei più noti studiosi israeliani appartenenti alla cosiddetta storiografia dell’establishment, ha posto lucidamente la vessata questione: in che misura il sionismo ha saputo puntellare la sua costruzione identitaria su di un principio negativo (come l’antisemitismo) rispetto a uno positivo (come la rinascita nazionale ebraica)? Paragonato ad altri responsi ebraici all’antisemitismo (l’umanesimo liberale, il bundismo, l’ebraismo riformato), l’unicità del sionismo sta nell’aver accettato l’assunto basilare antisemita che gli ebrei costituissero un corpo estraneo nella fabbrica nazionale dei popoli europei – un corpo che non poteva mai assimilarsi». Rimando alla VII parte dell’intervento Gerusalemme vista dal Monte degli Ulivi per note e riferimenti, soprattutto per non allungare troppo questo testo.

Ultimo aspetto: esiste da sempre un vasto mondo ebraico-progressista-assimilato apertamente anti-sionista o almeno profondamente critico verso i governi israeliani. Tra Soros e Netanyahu passa un abisso.

L’ebraismo insomma, lungi dall’essere un monolite, è un arcipelago con isole in guerra fra loro.

Il tema escatologico

Largamente tralasciato in campo mediatico è il tema escatologico, del resto in una società figlia del giano bifronte liberal-marxista è difficile affrontare discorsi che esorbitino dalla pura materia. Basterebbe pensare a tutta la controversia sulla ricostruzione del Terzo Tempio o anche solo al nome che Hamas ha dato all’operazione del 7 ottobre (Tempesta di Al Aqsa), con un chiaro riferimento proprio a quella contesissima spianata del Tempio. L’imperatore Giuliano l’Apostata voleva riedificarlo nel IV secolo in sfregio ai cristiani ma, racconta il pagano Ammiano Marcellino, una serie di globi di fuoco apparsi dal nulla resero impossibile l’operazione. Ne La Rivoluzione guardata negli occhi si riprendono le lettere dell’illuminista D’Alembert che scriveva al suo amico, il re di Prussia, chiedendogli, se possibile, di ottenere dal sultano la riprogettazione del tempio di Gerusalemme, per gli imbarazzi della Sorbona ed i minuti piaceri della filosofia. L’esperimento fallì nuovamente.

Si badi: esiste un’Escatologia vera, con la maiuscola – quella cattolica – e tante escatologie minuscole, che come foglie secche, nel colorato autunno contemporaneo, rimangono meravigliosamente connesse al tronco vitale. Esistono in un ordine che le supera. E vien da chiedersi che ruolo possano avere nel quadro complessivo. Se anche Caifa profetava quando diceva che è meglio la morte un solo Uomo (Cristo) per il popolo e non la morte della nazione intera, ci si può forse fare qualche curiosa domanda sulle dichiarazioni di certi haredim (giornalisticamente: ebrei ultraortodossi) inerenti l’impossibilità, secondo i dettami religiosi visti in precedenza, dell’esistenza di un vero e proprio stato ebraico nel tempo presente. Seppure questi esponenti non vadano rahnerianamente trattati da cristiani anonimi, vanno forse studiati con più attenzione, sempre tenendo ben fermo il punto in cui sta la verità. Restano molte questioni aperte, impossibili da trattare in breve. Ma sembrano di gran lunga più concrete e reali di tanti estenuanti dibattiti diffusi sui canali d’informazione.

I colli di Gerusalemme

Più si entra nel mistero, più questo diventa profondo e oscuro, ma la tenebra non cancella mai del tutto la luce. Navigando nella complessità della politica internazionale e di tutto ciò che ad essa rimanda, restano le immutabili certezze che normano e precedono ogni analisi. Chi vi chiede di applicare il sì sì no no, il con me o contro di me, fuori dal loro ambito (che è, ad esempio, quello dei dogmi e delle questioni metafisiche e moralmente certe) vi sta ingannando, e distrugge i principii stessi che dice di proporre. Chi vi spinge ogni anno a mettere una bandiera diversa o un logo aggiornato nel profilo social, vi domanda di aderire a finti assoluti che fanno scolorire i veri assoluti. Ed è la teologia della storia che, proprio in relazione ai veri assoluti, sembra suggerirci l’impossibilità di un vero regno di pace nella Terra Santa, terra bagnata dal sangue di un Uomo-Dio, rifiutato dalla larga maggioranza di chi la abita.

Tutte le profezie e le figure veterotestamentarie indicavano quel Cristo (quei luoghi, quel tempo, quella vita, quei fatti), i suoi miracoli lo confermavano, la morte in croce del Figlio di Dio – riannodando tutto più in alto – ammutoliva persino i filosofi che si angustiavano sul tema del male, secoli di martiri certificavano col sangue la loro testimonianza irrefutabile, la Chiesa prodigiosamente non solo vinceva ma stravinceva, contro tutto e contro tutti.

La pace su quella terra dunque tornerà, sì, ma quando i musulmani baceranno la pietra del Santo Sepolcro e gli ebrei riconosceranno finalmente che quel Kadosh! Kadosh! Kadosh! – quel tre volte Santo – altri non è che il Dio della Santissima Trinità. E dai sette colli di Gerusalemme – sette come quelli della nuova Gerusalemme romana – si alzerà l’inno:

Viva Cristo Re! Viva Maria Regina!


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