di Luca Fumagalli
Ignorato durante la vita, Gerard Manley Hopkins (1844-1889) divenne in seguito uno dei poeti di riferimento per tanti autori del Novecento. Sebbene il gesuita scrisse la maggior parte dei suoi versi tra il 1876 e il 1889, fu solo nel 1918, quasi trent’anni dopo la morte, che l’amico Robert Bridges ne pubblicò una prima edizione, dando il via a un lento processo di riscoperta di quello che era ormai considerato un talento ingiustamente bistrattato (non a caso nel 1975 una lapide dedicata alla sua memoria venne posta nel famoso Poets’ Corner dell’Abbazia di Westminster, accanto a quella dei nomi più illustri della cultura britannica).
In realtà Hopkins, che proveniva da una famiglia anglicana, aveva dato prova sin dalla giovane età di possedere doti non comuni. Oltre ad aver frequentato con ottimi risultati il Balliol College di Oxford ed aver avuto come insegnante, tra gli altri, quel Walter Pater che fu ispiratore di Wilde, aveva sorpreso tutti quando nel 1866 si era convertito al cattolicesimo, ufficialmente accolto nella Chiesa da J. H. Newman. Quando poi volle farsi gesuita, bruciò tutte le poesie che aveva scritto sino a quel momento: ai suoi occhi la letteratura era un passatempo profano, una distrazione egoistica non adatta a un futuro uomo di Dio.
Tuttavia non abbandonò mai del tutto la penna, concedendosi qualche svago letterario – da custodire gelosamente nel privato – tra i molti impegni che gli derivavano dal duplice ruolo di sacerdote e insegnante.
Gli ultimi anni della sua breve vita li trascorse in Irlanda, dove era stato mandato dai superiori per occupare la cattedra di professore di latino e greco presso lo University College di Dublino. L’insegnamento era rivolto a piccole classi, ma per lui il compito più oneroso e deprimente era quello di valutare le centinaia di elaborati che ogni anno gli erano consegnati dagli studenti provenienti da altri collegi. Un simile stato di cose, sommandosi alla sensazione di essere in esilio, imprigionato in una terra straniera che nulla aveva a che spartire con l’amata Inghilterra, gli causarono seri attacchi di depressione nel fisico e nel morale.
Su questo fondo di tristezza nacquero i cosiddetti “dark sonnets” o “terrible sonnets”, ossia quel gruppetto di componimenti più spesso analizzato dagli studiosi del poeta che fa della sfiducia, del dolore e del tormento la propria marca distintiva (significativa la scelta della forma rigorosa e compatta del sonetto, quasi a voler stringere in una dura disciplina sentimenti che Hopkins era consapevole di far fatica a controllare).
Sarebbe comunque miope e superficiale – come qualcuno ha tentato di fare – scorgere nell’ultimo Hopkins i segni di una fede indebolita, di una sfiducia montante fino a lambire la perdita di ogni certezza. Se non altro perché i “dark sonnets”, per quanto importanti, sono solo sette dei ventuno che il gesuita scrisse durante il difficile periodo irlandese. Negli altri si coglie un tenore decisamente diverso, con la conseguenza che, a stati d’animo di profonda angoscia al limite della cupa disperazione, si alternano liberamente momenti più solari, fati di ritratti di genuina speranza, di preghiere e di esperienze di bellezza. Del resto in Hopkins non è affatto raro trovare in una vicinanza sorprendente sentimenti opposti, e la desolazione, come insegna Sant’Ignazio, che dei gesuiti fu il fondatore, è parte inevitabile del cammino cristiano.
Anche nella forma si rivela la straordinaria modernità del poeta il quale, attingendo a piene mani dal mondo greco e da quello ebraico dei Salmi, mostra di voler puntare più sull’effetto ritmico che sulla metrica, con versi sovente così intricati da risultare difficilmente decifrabili a una prima lettura. La musicalità è garantita dai rimandi alla liturgia e alla lirica medievale, nonché dalla sapiente cesellatura di allitterazioni, assonanze e onomatopee.
In generale, nelle poesie di Hopkins la natura suggerisce l’esistenza di verità profonde, generate da allusioni simboliche, con semplici descrizioni o bozzetti paesaggistici che alla lunga diventano indizi di un “oltre” che rimanda a Dio, quel mistero insondabile che tutto pervade. Parallelamente, all’uomo non viene tolta la fatica di doversi dimostrare ogni giorno all’altezza del proprio ideale, scongiurando la tentazione del peccato.
Le poesie irlandesi di Hopkins sono state raccolte nel volume Un itinerario nella desolazione, recentemente pubblicato dalla casa editrice Lindau, tradotte e commentate da Domenico Pezzini. Si tratta di una guida affascinante, per certi versi un inedito in Italia, che testimonia i movimenti di un’anima sensibile come quella del gesuita, in continua oscillazione tra depressione ed entusiasmo, che seppe trarre da un simile temperamento contraddittorio tesori di poesia che seguitano a nutrire di verità e bellezza intere generazioni.
Il libro: Gerard M. Hopkins, Un itinerario nella desolazione. Le ultime poesie, a cura di Domenico Pezzini, Lindau, Torino, 2023, pp. 232, Euro 18.
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