Nel quadro del dibattito in corso volentieri pubblichiamo questo contributo inviatoci dall’Avv. Guido Ferro Canale.
Due fatti di cronaca assai recenti hanno riportato alla ribalta non tanto la questione del Papa eretico – che ormai tiene banco senza interruzione almeno dal 2016, tutti sappiamo perché – ma quella, ben più delicata, delle possibili soluzioni giuridiche:
· il 21 giugno 2024, Mons. Carlo Maria Viganò ha diffuso un comunicato stampa dal significativo titolo “J’accuse”, in cui, dopo aver sostanzialmente ribaltato sulla “chiesa bergogliana” l’accusa di scisma, ha scritto in particolare: “Dinanzi ai miei Confratelli nell’Episcopato e all’intero corpo ecclesiale, io accuso Jorge Mario Bergoglio di eresia e di scisma, e come eretico e scismatico chiedo che venga giudicato e rimosso dal Soglio che indegnamente occupa da oltre undici anni. Ciò non contraddice in alcun modo l’adagio Prima Sedes a nemine judicatur, perché è evidente che un eretico, in quanto impossibilitato ad assumere il Papato, non è al di sopra dei Prelati che lo giudicano.”;
· il 13 luglio 2024, gli “Alleati dell’Eucarestia e del Vangelo” (che sono partiti combattendo contro la Comunione sulla mano, ma a quanto pare in pochi mesi han fatto tanta strada), in collaborazione con “Iustitia in Veritate”, hanno a loro volta diramato un appello, rivolto ai Cardd. Burke, Müller e Sarah, “noti per la loro fedeltà alla Verità, una supplica filiale, perché accertino e esprimano ufficialmente una parola definitiva sulle eresie, pre e post-elezione al soglio petrino, di cui è accusato il Pontefice Regnante, giudicandolo, affinché ritorni un po’ di ordine e la dovuta corrispondenza tra la gerarchia Cattolica, la Sana Dottrina Bimillenaria della Chiesa e il Suo Fondatore, Sposo, Sovrano e Maestro”: premettono infatti che “Se pur un papa fosse eretico, sarebbe scomunicato latae sententiae. Ovvero non sarebbe necessario un regolare processo canonico. [sic] Basterebbe solo una dichiarazione ufficiale da parte di chi ne ha facoltà. Non chicchessia, ma solo i cardinali ne hanno facoltà.”.
Non si sa se le due iniziative avranno un qualche seguito: lo scetticismo sembra legittimo, soprattutto riguardo alla seconda. Qui, però, prendiamole semplicemente per quello che dicono e notiamo un fatto curioso: entrambe ammettono la possibilità e, in un certo qual modo, anche la necessità di un giudizio ufficiale nei confronti del Papa, o presunto tale, che si rivelasse eretico, tuttavia sembra che dissentano sull’autorità titolata a pronunciarsi, perché, sebbene Viganò non sia chiarissimo in proposito, pare che pensi all’Episcopato, mentre gli Alleati ritengono che la competenza spetti “solo” ai Cardinali… e si direbbe che, secondo loro ne bastino almeno tre.
Diciamo subito che Carlo Maria Viganò è dottore in utroque iure e quindi non sorprende che il testo sia molti più preciso, in termini giuridici, di quello prodotto da Veronica Cireneo per gli Alleati: l’idea che, in presenza di una scomunica latae sententiae, non sia necessario un regolare processo canonico, a tacer d’altro, ignora che esiste proprio una procedura per accertare e dichiarare l’esistenza di quella scomunica, che fino all’atto dichiarativo spiega solo alcuni dei suoi effetti e non altri. Cionondimeno, a mio parere hanno entrambi ragione: la competenza spetta sia all’Episcopato (ossia al c.d. “Concilio imperfetto”) sia ai Cardinali, ma in termini diversi.
Questa conclusione è certa per chi segua il CIC 1983, come sembra che facciano gli Alleati, ma si raggiunge anche sulla scorta della codificazione pio-benedettina, sebbene con un po’ più di difficoltà. In estrema sintesi: i Cardinali procedono in via amministrativa, cioè non dichiarano la pena bensì lo stato di vacanza della Sede, per poi entrare in Conclave (la perdita dell’ufficio, infatti, non dipende dalla scomunica, contrariamente a quel che crede la Sig.ra Cireneo); mentre il Concilio imperfetto procede in via giudiziale, ossia giudica il delitto di eresia e, se ritiene che sussistano dolo e pertinacia, provvede a dichiarare le pene canoniche, nonché la vacanza della Sede Romana, e obbliga ogni singolo fedele ad evitare qualsiasi rapporto con il reprobo su cui fulmina l’anatema. La loro competenza è mutuamente esclusiva, nel senso che solo il Concilio può procedere in via giudiziale e solo i Cardinali, in quanto titolari del diritto-dovere di designare il Papa quando la Sede è vacante, possono dichiarare la vacanza stessa con un atto amministrativo, come è previsto in via generale per tutti gli uffici ecclesiastici dal can. 154 del nuovo Codice.
In teoria, nell’inerzia del Decano e del Sotto-Decano, ogni singolo porporato potrebbe prendere l’iniziativa di convocare tutto il Collegio per far accertare la Sede vacante, affinché si possa poi aprire il Conclave; ma siccome non credo che accadrà nulla in tal senso, per il momento non ritengo di occuparmi della via amministrativa e preferisco concentrarmi sulla via giudiziale, che d’altronde è anche la più studiata. Abuserò, quindi, della pazienza dei lettori occupando il loro tempo estivo con una serie di articoli dedicati al tema del “Concilio imperfetto” nei suoi vari risvolti, non esclusa la praticabilità concreta oggigiorno.
Cominciamo, quindi, dalla definizione: secondo la dottrina cattolica, un Concilio Ecumenico si può dir tale solo se è stato indetto dal Papa, o con la sua approvazione, o se perlomeno è stato liberamente approvato dal Pontefice a posteriori, perché nessun altro può dare al Concilio il potere di obbligare la Chiesa universale a seguirne i decreti (dogmatici o disciplinari che siano).[1] Nondimeno, si parla di “Concilio imperfetto” per indicare un’eccezione a questo principio, la quale è comunemente ammessa ma non manca di avversari: si tratterebbe di una riunione di Vescovi autorizzata a riunirsi senza l’assenso del Papa, o perfino contro il suo volere espresso, e dotata di un potere obbligante per tutti i fedeli, non escluso chi è o si pensa che sia Romano Pontefice, però con una competenza strettamente circoscritta ad alcuni casi ben precisi, i soli che le darebbero un senso e che possiamo riassumere nella formula “Papa dubbio”. Vi si dovrebbe far luogo, infatti:
· quando è dubbio se Tizio, fino a quel momento vero Pontefice o comunque occupante incontestato della Suprema Cattedra, sia caduto in eresia (o a fortiori apostasia);
· in presenza di scisma di Papi, cioè di contrapposizione tra due o più pretendenti al Papato che, quali che possano essere i rispettivi titoli all’ufficio, veri o pretesi, si comportano pubblicamente come se fossero Romani Pontefici (questo, in effetti, è il caso paradigmatico del “Papa dubbio”);
· negli altri casi di dubbio sulla validità dell’elezione, ivi compreso il sospetto che fosse già eretico in precedenza. Non è però chiarissimo il rapporto che dovrebbe intercorrere tra questa competenza e quella del Collegio cardinalizio, fermo che in linea di principio nel diritto canonico le competenze si presumono attribuite in via cumulativa con altri eventuali titolari e non in via esclusiva;
· infine, sebbene il punto sia pochissimo trattato, negli altri casi di Papa scismatico, che diventa dubbio allo stesso modo del Pontefice, vero o fino a quel momento tenuto per vero, che venga in sospetto di eresia.
Il funzionamento di un Concilio imperfetto presenta non pochi punti di discussione, a cominciare dal problema di principio: una simile riunione di Vescovi, anche se restasse rigorosamente entro i limiti fin qui prefissi, non sarebbe comunque in sé stessa una forma di conciliarismo mitigato? Le definizioni dogmatiche del Vaticano I in merito al Primato papale e alla superiorità del Romano Pontefice sui Vescovi, singolarmente considerati oppure riuniti, non contengono clausole limitative tali da far salve quelle ipotesi, ancorché senza dubbio eccezionali. Si tratta di un’obiezione fondamentale, ovviamente, oggi sostenuta in particolare da don Curzio Nitoglia, che per combatterla ha scritto un libro intero.[2] Non affronterò di nuovo il tema, avendolo già atto in altre circostanze, ma ritengo che vada tenuto ben presente, perché perché si ripropone più o meno ad ogni passo.
Altro problema, di ordine pratico ma non solo, è chi abbia diritto di convocarlo. Molti autori dei secoli passati rispondevano: “l’Imperatore”; va da sé che questa via risulta oggi impraticabile. Supposto che il Papa o i pretendenti al Papato (secondo i casi) si rifiutino, chi ha il potere di superare il loro dissenso? Secondo un’opinione diffusa, e mantenuta tuttora dai seguaci di Mons. Guérard de Lauriers, ciascun Vescovo munito di giurisdizione. Ciò, tuttavia, ha reso impossibile ricorrere all’istituto dinanzi alla crisi post-conciliare, stante la ferma convinzione dei medesimi che le novità dottrinali cui resistono siano eresie e che la giurisdizione si perda ipso facto, allorché si aderisce pubblicamente a un’eresia: soltanto un atto formale di resipiscenza – o forse di conversione, dovremmo dire oggi che la maggior parte della “gerarchia materiale” è nata e cresciuta sotto le nuove idee – consentirebbe all’occupante di una sede episcopale di ritrovare o acquisire il potere di governo e quindi di indire il Concilio imperfetto. Fin qui, non è avvenuto nulla del genere e Mons. Viganò, che parrebbe forse incamminato su quella strada, a rigore non avrebbe comunque giurisdizione, in quanto semplice Vescovo titolare, senza fedeli affidati alle sue cure.
Terzo problema, ma non meno importante: chi deve essere convocato? Soprattutto se si tratta di eresia o di scisma, l’adesione ad essi è vista come preclusiva non solo all’ingresso in Concilio, ma alla stessa convocazione. E nel tourbillon postconciliare non è esattamente raro che si trattino alla stregua di verità di fede anche questioni di fatto o idiosincrasie personali. Anche al di là di tali deprecabili situazioni, se è scismatico chiunque non sia d’accordo con me, stamo a fa’ er concilietto der quartierino.
Infine, ma non da ultimo, secondo molti il fatto che la decadenza del Papa eretico dall’ufficio sia automatica renderebbe assolutamente inutile, o addirittura controproducente come possibile attentato all’ufficio papale, una sua dichiarazione da parte del Concilio imperfetto (o di qualunque altra autorità, salvo il Papa legittimo). Qui però bisogna aggiungere che, se è certamente maggioritaria la tesi che vuole il Papa eretico già deposto, iam depositus, non mancano gli autori di peso che difendono l’opinione opposta e lo ritengono “da deporsi”, deponendus. Ovviamente queste diversità di impostazione hanno un’importanza notevole, perché per gli uni l’atto dichiarativo, se pur ha senso farlo, è una formalità che si può sbrogliare in cinque minuti, per gli altri invece occorre istruire un vero e proprio processo. Il che, peraltro, espone a rinnovate accuse di attentato al Primato… e così i problemi si trasformano in un circolo vizioso, all’apparenza molto vicino all’insolubilità.
Non è un caso, quindi, che il mondo tradizionalista abbia visto un bel po’ di elezioni antipapali, diverse da parte di asseriti messaggeri celesti, altre da parte di accozzaglie umane varie, ma – almeno per quanto mi risulta – neppure una sola riunione che abbia potuto o voluto definirsi “Concilio imperfetto”. In effetti, un simile moltiplicarsi di antipapi è forse il sintomo più evidente dell’impasse generale, dell’impossibilità almeno pratica di trovare, hic et nunc, una qualunque articolazione visibile della Chiesa visibile che abbia il potere legale di risolvere la questione della legittimità loro e/o dell’occupante romano. Eppure, siccome le vie della Provvidenza sono strane e misteriose, forse proprio questa moltiplicazione apre la via di uscita.
Avremo modo di parlarne con calma, un aspetto alla volta.
[1] Cfr. per tutti s.v. J. Forget, Concile. IV. Concile oecuménique, in DTC III, Parigi 1908, coll. 641-2, qui 641: “Il est vrai que, pour être œcuménique sans restriction aucune, il doit l’être à la fois par sa convocation, sa célébration et la plénitude du pouvoir; mais en tout cas, selon l’appréciation et la terminologie traditionnelles, un concile n’est œcuménique, comme il n’est universel, que s’il est la représentation juridique, l’organe autorisé de toute l’Église; or, il ne saurait être tel qu’avec le pape, puisque sans lui il ne sera jamais qu’un corps acéphale; et par contre, l’intervention du chef suprême suffira souvent pour suppléer ce qui pourrait manquer d’ailleurs à l’œcuménicité, parce qu’elle garantira l’autorité absolue et universelle des décisions. De là vient que certains conciles sont considérés comme œcuméniques pour une partie seulement de leurs décrets, le concours ou l’approbation du saint-siège ayant manqué pour le reste. Nous avons un exemple célèbre dans le concile de Chalcédoine, dont le 28e canon est resté caduc, parce qu’il fut voté contre le gré des légats de saint Léon et que celui-ci refusa de le ratifier. Et parmi ceux que tout le monde, théologiens et canonistes, s’accorde à regarder comme œcuméniques, il en est deux, le II et le Ve de la série, qui ne l’étaient point en eux-mêmes, du fait de leur convocation et de leur célébration, et qui ne le sont donc devenus que grâce à la ratification subséquente et supplétive du pape: au I” concile de Constantinople il n’y eut d’invités et de présents que les évoques orientaux; quant au IIe, le pontife romain, bien que prié de s’y trouver, préféra s’abstenir complètement.”. Va notato che Forget, in tutta l’ampia voce Concile, non fa il minimo cenno al Concilio imperfetto.
[2] Cr. C. Nitoglia, Deporre il Papa? Riflessioni su Sede Romana e crisi nella Chiesa, Cermenate 2020.
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