Ma la gioia di quel solenne trionfo [l’Unione dei Greci] dovea cangiarsi tra poco in una generale tristezza. La stella più chiara e più fulgida del grande Concilio non dava ormai che una pallida luce. Bonaventura pochi giorni prima di quella quarta Sessione avea dovuto per improvviso malore sospendere le sue gravi fatiche. Le avea riprese con maggiore energia appena gli parve di essere migliorato in salute, ma le forze troppo calorosamente in essa Sessione esercitate gli vennero meno, e la violenza del male crebbe rapidamente così, che si dovette disperare di fargli salva la vita.
Ben tosto l’annunzio della pericolosa sua infermità gittò l’ansia e l’affanno nel petto di tutti, e i Padri, i Cardinali, il Pontefice altamente preoccupati del temuto pericolo non ebbero altra sollecitudine, altro voto, altra preghiera che per la conservazione dei preziosi suoi giorni. Grande testimonianza in vero della stima e dell’affetto che signoreggiava ogni cuore, e che facea travedere amara oltre ogni dire e dolorosa la perdita di una tanta celebrità, ma che non valse a sospendere i disegni del cielo aperto ormai per accogliere e per felicitare fra gli amplessi di Cristo colui che tanto aveva affaticato e sudato per glorificarlo nel mondo. Egli avea di già compiuto il suo corso, egli avea serbata a Cristo intemerata la fede, non gli restava che cingere la corona della giustizia a lui riservata dall’eterno rimuneratore della virtù nella gloria dei santi.
Non ispuntava ancora il nono giorno dall’ultima generale adunanza, che già sfinito di forze, aggravato dal male, sopraffatto dagli spasimi della morte che a rapidi passi s’andava avvicinando, il Cardinale Bonaventura non dava affatto altra speranza di sé, ed accennava coi sintomi ognor più allarmanti di prossima dissoluzione la sua dipartita dal mondo. Il timore, l’ansietà, la trepidazione erano nel cuore di tutti, e tutti ormai presentivano l’amarezza di quella perdita irreparabile; ma in mezzo alla generale costernazione, in mezzo al dolore e alle lagrime dei circostanti, quali erano di quell’anima benedetta le preoccupazioni, i sentimenti, gli affetti? A che mirava il suo sguardo affievolito e quasi ormai ottenebrato? Per chi batteva quel cuore, a cui più non restavano che gli ultimi aneliti della vita?
Disteso sul suo letticciuolo, colla fronte piena di serenità e di dolcezza, spirante dal volto i sentimenti di quella fede a cui tutte avea consecrate le potenze del suo nobile spirito, l’illustre figlio del Serafino d’Assisi stringeva al palpitante suo cuore e irrigava delle sue ultime lagrime il tesoro dell’anima sua, il centro costante de’ suoi desiderii, il termine fisso di tutta la laboriosa sua vita, il Crocifisso. A questo volgeva le smorte pupille, a questo indirizzava le pietose sue voci, con questo sfogava gli affetti dell’ intenerito suo cuore, da questo attingeva la forza per uscir vittorioso in quegli estremi momenti. Egli in vita ne avea studiate le grandezze, ne avea seguite le traccie, ne avea gustate le soavità, ne avea diffusa la gloria. Che potea adesso essere la morte per lui se non il sospirato compimento delle più vive sue brame? Quanta dolcezza non dovea piovergli in seno l’appressarsi del felicissimo istante che avrebbe immersa l’anima sua nell’abisso di quell’amore da lui ricercato, da lui contemplato, da lui sospirato con tutta l’intensità, con tutta l’ansietà, con tutto l’ardor dello spirito? 
Di tanta serenità, di tanta pace, di tanta dolcezza che rendeano preziosi gli ultimi istanti di quella vita sì cara, sì commendevole, fu testimone insieme ed ammiratore lo stesso augusto Pontefice, che a dargli un ultimo pegno della sua paterna dilezione e della sua altissima riconoscenza volle prestargli egli stesso gli estremi conforti della Chiesa, e amministrargli di propria mano il sacramento dell’ Estrema Unzione, quel sacramento in cui il giusto che muore si ribattezza per rinascere al cielo, per vestire la stola della celeste incorruttibilità.
Bonaventura sensibile a tanta degnazione del Vicario di Gesù Cristo, strinse e baciò ancora una volta la sacra sua destra, ricevette con tutta la fede e l’umiltà del suo spirito quell’estremo conforto, ed avuta dal commosso Pontefice l’apostolica Benedizione ritornò col pensiero e coll’affetto al suo crocifisso Gesù, piegando verso di lui amorosamente la fronte per deporre su quell’ aperto costato, come sulla soglia del paradiso, l’ultimo anelito, l’ultimo respiro del palpitante suo cuore. Nel silenzio profondo che il dolore avea fatto d’intorno a lui, il Santo concentrò un’ultima volta le forze dello spirito moribondo, lo immerse in dolcissima contemplazione, mandò ancora una voce che disvelava gli ardori della sua carità, impresse un ultimo bacio sul crocifisso suo amore, e con quel bacio esalando la preziosa anima sua volò fra gli amplessi di Dio a circondarsi dell’infinita sua gloria. 
Bonaventura era appena nell’anno cinquantesimo terzo di sua età, quando cangiava le pene e gli stenti di questa vita mortale colle dolcezze e coi gaudi di quella vita, che dura interminabile come la carità stessa di Dio, da cui riceve indeficiente alimento.
L’annunzio della morte del veneratissimo Cardinale riempì ben tosto la città di Lione, che ne pianse tutta l’amarissima perdita. Non v’era labbro dal quale non risuonassero gli encomi della sua santità, non v’era lingua che non celebrasse la sua straordinaria dottrina, non v’era cuore che non si sentisse preso d’ammirazione per le sue grandi virtù; in tutti era il pensiero, il desiderio, la gara di addimostrarne la sincera e profonda estimazione con solennissime esequie. I Greci stessi, ammiratori della facondia, dell’affabilità delle altre distinte prerogative del Santo, associarono al lutto della Chiesa latina le testimonianze del vivo loro cordoglio; e come s’erano uniti nella professione della medesima fede vollero unirsi ancora nell’ espressione di quel dolore che da tutta la cattolica Chiesa doveva essere egualmente sentito.
Nulla fu risparmiato per rendere più solenne che mai la pompa di quei funerali. La stessa maestà del Pontefice circondata dal sacro Collegio dei Cardinali, dai Vescovi, dalla Curia Romana e dai Prelati tutti del Concilio, volle tributare al defunto gli ultimi onori implorandogli colle sublimi preci della Chiesa il riposo sempiterno. Una magnifica orazione fu recitata fra le meste salmodie e fra le lagrime dell’affollatissimo popolo, e la disse l’illustre Cardinale Pietro di Tarantasia dell’Ordine dei Predicatori. Piangendo egli sull’estinto fratello, come sull’estinto Gionata piangeva un giorno Davidde, ne delineò sì bellamente le virtù, ne esaltò con tanta mostra di ammirazione la straordinaria sapienza, ne mise in luce con tanta grazia l’innocenza dei costumi, la dolcezza della conversazione, le attrattive della facondia, la santità della vita, che a tutti parve quella perdita una generale sventura, tutti versarono sull’esanime spoglia del desideratissimo Cardinale larga copia di pianto.
Ma chi senti più vivo il dolore di quella grande calamità fu il santo Pontefice, che nella quinta Sessione di quel memorando Concilio scioglier volle egli stesso la lingua per annunziare al mondo coll’ apostolica voce l’inestimabile danno a cui soggiaceva la Chiesa con quella morte troppo immatura e per ordinarne in tutto il mondo sacrifizii e suffragi. Egli volle che tutta la Chiesa prendendo parte al dolore dell’anima sua, si unisse ancora con lui nelle preghiere e nei voti, perché in cielo fruisse tosto della gloria immortale quegli che tanta gloria avea pure procacciata alla Chiesa, e che di tanti meriti erasi circondato agli occhi della cristianità.
Bonaventura ebbe umile ma glorioso sepolcro nella Chiesa del proprio Ordine. I suoi religiosi accolsero in mezzo alle lagrime quel santo deposito che venne affidato alla loro carità, e ch’essi avrebbero guardato con gelosia, con amore, con filiale e distinta venerazione. Quel sepolcro parlava di sublimi virtù, di grandi meriti, di gloria verace e non peritura. Esso ricordava una vita preziosa alla Chiesa, cara al mondo, degna dell’ immortalità: e la Chiesa e il mondo non mancarono di attestare a tanto cumulo di meriti, a tanto splendore di virtù la loro giusta ammirazione e la loro perpetua riconoscenza. Come fu universale il compianto, universale apparve ancora la gara per infiorarne il sepolcro di encomi, per iscolpirne sui marmi la celebrità delle gesta, per tramandarne ai posteri in ogni maniera la santa e benedetta memoria. Che se la Chiesa depose su quella tomba un tributo di lagrime, se la cristianità riconobbe nella morte del Santo una propria sventura, se tutto il mondo n’ebbe cagione di lutto com’ebbe dalla sapienza e dalla vita di lui cagione di ammirazione e di laudi, quanto non dovea sentirsi addolorato per quella perdita il cuore dei figli tutti del serafico Patriarca?
Nello spegnersi di quella vita spegneasi per essi l’astro più sfolgorante del loro Istituto, spariva dal loro seno la gemma più preziosa e più rara della loro grande comunità, cessava per essi una gloria che nessun altro secolo avrebbe potuto far sorgere bella di tanta chiarezza, degna di tanta considerazione. Se non che questa gloria pei figli del Serafino d’Assisi non cessava affatto colla morte del Santo. Essi la serbano ancora nella loro memoria, essi la sentono ancora nel loro cuore, essi possono ancora additarla alle genti come dolcissima eredità, come nobilissimo vanto. Ispirandosi alla celeste dottrina che le opere di lui abbondantemente racchiudono, e tenendo fisso lo sguardo su quel tesoro di virtù di cui ci si mostra intessuta la troppo breve sua vita, sapranno ancora malgrado le violenti scosse delle sociali perturbazioni addimostrare al mondo come la terra che diede un giorno così nobile frutto, non abbia perduta la sua primitiva fecondità, e come nell’amore della sapienza e nell’esercizio delle religiose virtù sappiano tuttavia conservare intemerato e degno di loro il sacro retaggio di quella splendidissima gloria.


🔴 San Bonaventura al Concilio di Lione

🔴 San Bonaventura Dottore della Chiesa. La bolla di Sisto V



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