di Luca Fumagalli
La recente pubblicazione di Tolkien’s Faith (Word on Fire Academic, 2023), a firma di Holly Ordway, segna un deciso passo in avanti nella comprensione della complessa parabola esistenziale e psicologica dell’autore de Il Signore degli Anelli. Il saggio, infatti, si presenta come una biografia spirituale di quest’ultimo, che ha il dichiarato intento di sondare le radici, la sostanza e l’evoluzione della sua fede, la stessa che ha giocato un ruolo fondamentale nella creazione del celeberrimo legendarium (sebbene, vale sempre la pena ricordarlo, il mondo della Terra di Mezzo non sia un’allegoria cristiana). Del resto Tolkien era il primo a non fare mistero della propria adesione al cattolicesimo, come dimostrano svariate lettere e interviste, e la religione determinò tanto il suo stile di vita quanto lo sguardo valoriale attraverso cui giudicava la realtà; una volta, ad esempio, arrivò addirittura ad ammettere che per lui era impossibile separare la fede dall’arte.
Il futuro professore di Oxford si era convertito da piccolo seguendo la decisione della madre – una povera vedova accolta dagli Oratoriani di Birmingham – e da quel momento, fino alla scomparsa, Cristo e la Sua Chiesa rimasero un punto di riferimento imprescindibile, e ciò nonostante gli alti e bassi della vita che avrebbero potuto tranquillamente dirottarlo altrove.
Nella sua infanzia un’importante influenza fu quella di Padre Francis Morgan, un tipo capace e benevolo alle cui cure lui e il fratello vennero affidati dopo essere rimasti orfani; il sacerdote gli trasmise la passione tutta oratoriana per la “profonda leggerezza” di un San Filippo Neri e l’amore per la verità di un Newman.
Da adulto, Tolkien era solito recarsi a Messa ogni giorno – Humphrey Carpenter dedica un paio di pagine della sua biografia alla descrizione di questa buona abitudine – e molto ebbe a soffrire a causa dell’avversione dell’amico C. S. Lewis per il “papismo” e dell’atteggiamento tiepido della moglie Edith. Non era una un mistero il suo forte attaccamento al Santissimo Sacramento né la sua devozione per la Madonna e i santi, in parte legata all’astio nei confronti dell’esoterismo. Così scriveva in una lettera del 1954: «I Santi sono quelli che malgrado tutte le loro imperfezioni non hanno mai totalmente piegato il cuore e la volontà al mondo dello spirito del male (in termini moderni ma non universali: alla Macchina, al materialismo “scientifico”, al socialismo in ognuna delle sue varietà che oggi sono in guerra)». Più in generale, per quanto di indole aperta e generosa, Tolkien si dimostrava inflessibile quando venivano avanzate idee che cozzavano con il suo credo. A quel punto si lanciava in ragionamenti appassionati, sebbene talvolta scadeva in iperboli un po’ imbarazzanti di cui prima o poi finiva per pentirsi.
La sua fede, caratterizzata pure da una grande attenzione per l’educazione della gioventù, fu messa seriamente alla prova negli anni del Concilio Vaticano II, quando, tra il 1962 e il 1965, la Chiesa diede il via a un processo di aggiornamento teologico-dottrinale che non mancò di suscitare polemiche. Oltre al professore di Oxford, furono molti gli esponenti di spicco del revival culturale cattolico in Inghilterra che allora assunsero posizioni scettiche – quando non apertamente critiche – nei confronti delle riforme promosse dal Concilio. Pochi, come Graham Greene, furono gli entusiasti: la maggior parte degli intellettuali, al contrario, avanzò più di una riserva. Il capofila dei dissidenti fu senza ombra di dubbio Evelyn Waugh, che dal giorno della chiusura del Concilio non smise mai di chiedere a Dio di poter morire ancora cattolico (pertanto, nella sua scomparsa, avvenuta improvvisamente durante la Pasqua del 1966, si è tentati di scorgere un segno provvidenziale di qualche sorta).
Al pari di Waugh, anche Tolkien visse con sentimenti contrastanti quanto stava avvenendo al Concilio. George Sayer, che con il professore discusse lungamente durante gli anni Sessanta, in un’intervista ha parlato di una matrice “tradizionale” del cattolicesimo tolkieniano, definendolo un cattolico molto rigoroso, ortodosso e vecchio stile, che «si oppose alla maggior parte dei nuovi sviluppi nella Chiesa al tempo del Concilio Vaticano II». Parole analoghe sono impiegate da John Tolkien, il figlio dello scrittore, diventato sacerdote negli anni Quaranta: a sua detta il padre era contro i cambiamenti, soprattutto la perdita del latino. Anche Carpenter lo nota: «Un’altra sorgente di infelicità fu, in età avanzata, l’abolizione della Messa in latino, poiché l’introduzione dell’inglese nella liturgia al posto di quel latino che aveva conosciuto e amato sin da ragazzo lo aveva profondamente ferito».
Del resto il 1 settembre 1963 Tolkien scrisse una lettera in cui, dopo aver espresso tutto il suo amore per il Papato romano e per l’Eucarestia, elogiava San Pio X, il Pontefice che, secondo lui, aveva fatto «la più grande riforma dei nostri tempi». In un’altra epistola indirizzata al figlio Michael manifestò più esplicitamente i suoi dubbi, aggrappandosi con le unghie e con i denti al principio d’obbedienza: «So abbastanza bene che, sia per me che per te, la Chiesa che una volta percepivamo come un rifugio, ora sembra spesso una trappola. […] Penso che non ci sia nulla da fare se non pregare, per la Chiesa, per il Vicario di Cristo, e per noi stessi; e allo stesso tempo esercitare la virtù della lealtà, che diventa veramente una virtù solo quando vi è il serio rischio di tradirla».
Le accuse di Tolkien erano dirette agli ultras del passato ma anche e in particolare ai novatori, ossia a coloro che pretendevano di tornare a una presunta purezza originale: «Cosa fosse la “Chiesa primitiva”, nonostante tutte le ricerche, rimarrà qualcosa di ampiamente sconosciuto; […] ciò che è primitivo non è garanzia di valore». Nel prosieguo della lettera, si spiega poi come sia assurda la pretesa di estirpare un albero per ricercarne il seme: semplicemente quest’ultimo non c’è più; il tronco, le fronde e le foglie sono la sua naturale evoluzione, non certo un tradimento.
Altre questioni scottanti, tra cui l’ecumenismo, incontrarono solo in parte il suo favore: se da un lato Tolkien considerava ovvio che i soldati del cattolicesimo non potessero vincere la guerra rimanendo sempre asserragliati nella propria fortezza, dall’altro ricordava a Michael: «Che cosa sarebbe ora la cristianità se la Chiesa di Roma fosse stata distrutta?».
Tuttavia, a differenza di Waugh, non intraprese la strada dell’opposizione militante. Optò – come la maggior parte dei perplessi – per la docile sottomissione, accettando con rassegnazione cambiamenti che non capiva fino in fondo. Davanti a un tale smarrimento scelse l’unica soluzione che gli pareva possibile, quella cioè di affidarsi al giudizio della Chiesa, Maestra infallibile, senza fare troppa pubblicità ai suoi scrupoli. Fu questo uno dei probabili motivi per cui il suo nome non compare tra i firmatari del famoso “Indulto di Agatha Christie” del 1971.
Quello del rapporto tra Tolkien e il Concilio Vaticano II è solamente uno dei tantissimi temi di cui si parla in Tolkien’s Faith, già tradotto in spagnolo ma non (ancora?) in lingua italiana. Il volume della Ordway è una risorsa preziosa, a tratti imprescindibile, per trovare il bandolo della matassa di una vita spirituale intensa e profonda come fu quella di Tolkien, un autore che anche in ambito religioso è stato spesso tirato per la giacchetta ora da una parte, ora dell’altra. Ben vengano dunque saggi come questo, i quali, sine ira ac studio, sono animati non dai triti pregiudizi, ma semplicemente dallo sconfinato amore per uno dei più grandi scrittori del XX secolo.
Il libro: Holly Ordway, Tolkien’s Faith. A Spiritual Biography, Word on Fire Academic, Washington, 2023, pagine 480, $ 27.96
Link all’acquisto: https://bookstore.wordonfire.org/products/tolkiens-faith
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