di Luca Fumagalli
Lionel Johnson (1867-1902) fu uno dei poeti di maggior talento della stagione fin de siècle, apprezzato, tra gli altri, da Yeats, Eliot e Pound. L’esistenza tormentata, segnata dalla conversione al cattolicesimo ma pure dai problemi con l’alcol, lo condusse a una morte prematura, non riuscendo mai a ottenere quel successo che avrebbe certamente meritato. Difatti le sue raccolte vendettero poco o nulla, costringendolo a guadagnarsi da vivere con il giornalismo e con la saggistica, due ulteriori ambiti in cui dimostrò doti non comuni (firmò, ad esempio, il primo lavoro biografico dedicato a Thomas Hardy). In generale, al di là degli stereotipi da “minore” del decadentismo, Johnson incarnò con la sua vita e la sua opera quell’estetica degli anni Novanta, giudicata da Holbrook Jackson la più autentica, che voleva dare corpo a una proposta religiosa da contrapporre allo spirito cinico e disilluso che attraversava la cultura del tempo.
Perciò solo a un conoscitore superficiale del poeta inglese potrebbe risultare strana l’ammirazione incondizionata che quest’ultimo nutriva per il cardinale Henry Edward Manning (1808-1892), arcivescovo di Westminster e primate nazionale. Dopo Newman, Manning fu il più importante convertito dell’Epoca vittoriana, distinguendosi quale sostenitore delle posizioni infallibiliste durante il Concilio Vaticano I. Sul piano pastorale difese con passione i poveri e gli oppressi, giocando un ruolo fondamentale nell’elaborazione della moderna dottrina sociale cattolica sintetizzata nell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII.
È più che probabile che Johnson venne cresimato dallo stesso Manning e il loro primo incontro è descritto da Yeats nelle sue Memoris,che riportano le parole dell’amico: «Mi chiese se avessi intenzione di scegliere la vita religiosa. Dissi di no, che sarei diventato un letterato. “Bene”, mi rispose, “Ho sempre considerato la letteratura un ordine minore del sacerdozio”» (va però precisato che Yeats è un memorialista notoriamente poco affidabile e altrove attribuisce la medesima frase a Newman).
***
Vi sono tre testi, in particolare, che attestano la stima di Johnson per Manning.
Il primo è una breve poesia del 1892, dai toni vistosamente elogiativi, scritta in occasione della morte del cardinale e dedicata al botanico James Britten, anch’egli cattolico. Nella lirica la continuità tra la Roma imperiale e quella cristiana suggerita nel primo verso si trasforma in un confronto impietoso in cui la Chiesa emerge quale vera trionfatrice della storia, l’unica in grado di offrire una reale speranza a un’umanità dolente.
Alla sepoltura del cardinale Manning (At the Burial of Cardinal Manning)
Vincitore nella porpora romana, santo e cavaliere,
In pace passa alla pace eterna:
Un trionfo così orgoglioso, non conosceva l’antica potenza di Roma;
Lei non sapeva come far cessare il dolore dei poveri:
Per migliaia, prima che conquistasse la casa più sacra,
La terra fu resa più umile da questo principe di Roma.(Victor in Roman purple, saint and knight, / In peace he passes to eternal peace: / Triumph so proud, knew not Rome’s ancient might; / She knew not to make poor men’s sorrow cease: / For thousands, ere he won the holiest home, / Earth was made homelier by this Prince of Rome)
Il 16 settembre 1893 Johnson recensì per l’«Academy» una raccolta di saggi di Manning, Pastime Papers, pubblicata dopo la sua scomparsa. Nel seguente brano ci si sofferma sul carattere schivo e riservato del porporato, sempre pronto a mettere in ombra se stesso per esaltare la verità del massaggio evangelico:
Manning si represse deliberatamente: non apprezzava e non si fidava di molte cose della vita moderna e del pensiero moderno, ma ciò che soffriva di più era l’esibizionismo, anche quando innocuo e non contaminato dalla vanità. Si affidava totalmente alla forza oggettiva della Fede, così come custodita e insegnata dall’autorità vivente della Chiesa: era attento a presentare la Fede, non come era per lui nei recessi della sua anima, ma nei contorni chiari, forti e definiti comuni a tutti i fedeli di tutte le epoche. Secretum meum mihi: non mostrava mai i suoi sentimenti privati. Di tanto in tanto, così grande era il suo orrore per l’egoismo, che sembrava reprimere le emozioni affinché le parole di consiglio o di avvertimento da lui pronunciate fossero apprezzate in sé più che per il suo alto ufficio. E a parte tutti i motivi religiosi, era per natura austero: impressionava il suo ascoltatore come il più grande dei grandi nobili, il più raffinato dei raffinati gentiluomini, secondo tutte le più alte tradizioni di corti e salotti […].
Un uomo del genere è facilmente frainteso. I suoi amici, i suoi colleghi, i suoi sodali lo capivano: non era attento a far sì che il mondo lo comprendesse. Se chiamato in causa, difendeva le sue azioni pubbliche nell’interesse della Chiesa; altrimenti, con una specie di nobile orgoglio unito a umiltà, lasciava passare le insinuazioni, le interpretazioni errate, la malizia e il pettegolezzo. I suoi scritti, quasi tutti, esprimono questo carattere: aveva altre cose a cui pensare che a se stesso. Avrebbe scritto del “Magistero infallibile del Sommo Pontefice”, in un modo che esasperava molti. Newman, predicando e insegnando la stessa dottrina, la rivestiva di ogni sorta di grazia persuasiva: mostrava, nel modo più accattivante, cosa significasse per lui. […] Il risultato non era sempre la convinzione da parte dei suoi lettori, ma sempre una nuova sottomissione alle parole d’oro, al fascino magico di Newman. Cor ad cor loquitur, il cuore parla al cuore, era il suo motto e il suo metodo. Manning, per un istinto ugualmente cortese, si nascondeva dai suoi lettori e non faceva altro che prestare la sua voce alla Chiesa vivente. “Io sono di Paolo, io di Apollo” [I Corinzi, 3:4, un riferimento alle divisioni intestine nella Chiesa] era odioso per lui, e si rifiutò di correre il rischio. Allo stesso tempo, un uomo e il suo stile sono inseparabili: e Manning scrisse sempre con una certa bellezza maestosa, una semplicità grave e castigata, misurata e accademica. Ma […] Manning non aveva più paura dei luoghi comuni di Sofocle o Orazio: i luoghi comuni sono probabilmente le verità più vere, le meglio attestate al mondo. Ma la parola indica il nostro desiderio di qualcosa di nuovo; e colui che capovolgerà un luogo comune in un paradosso passa per il più felice e rinfrescante degli ingegni. Un articolo di rivista di Manning, pieno d’arguzie, aveva un’aria d’altri tempi: non scriveva come gli scrivani.
The Great Priest è invece il titolo di un pezzo che Johnson fece pubblicare sul «Daily Chronicle» il 10 gennaio 1986. Si tratta della recensione della biografia di Manning in due volumi scritta da Edmund Sheridan Purcell, così piena di imprecisioni e menzogne da dare corpo a quella leggenda nera che purtroppo ancora oggi continua. Eccone un estratto in cui Johnson offre sul porporato un giudizio più che lusinghiero, decisamente distante da quello di Purcell:
Dimostrò al popolo inglese come un principe di Roma potesse essere un patriota inglese, come la Sacra Porpora fosse un buon abito inglese, non celando un cuore straniero; come un cardinale e arcivescovo potesse essere ancora, in qualche modo, un Stephen Langton [arcivescovo di Canterbury e amico di Innocenzo III, fu tra i promotori della Magna Charta] per il suo popolo. […]
Fece un lavoro che per gli uomini dai tempi di Addison, fino ad arrivare agli uomini ai tempi di Shelley, sarebbe stato impensabile: la presentazione del cattolicesimo in forma rigorosa e inflessibile al popolo d’Inghilterra, conquistando per esso ammirazione e rispetto, non con l’arte letteraria o lo studio, ma con una vita instancabile di attività, infiammata e ispirata ai suoi altari. Questo lavoro è stato fatto, e non dovrà mai più essere rifatto.
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