prof.-Giovanni-Turco

 

Offriamo ai nostri lettori e a nostra cura una sintesi, il più possibile completa, di un bellissimo, denso articolo del Prof. Giovanni Turco, comparso in francese sul numero speciale del Courrier de Rome di novembre 2016. Il testo, scientificamente pregno ma illuminante per tutti, anche per i non “addetti ai lavori” – com’è consuetudine per il suo Autore – sarà successivamente pubblicato in lingua inglese, e infine in italiano, all’interno di volumi che saranno dati alle stampe nei prossimi mesi. Buona lettura! [RS]

 

 

1. Un problema essenziale

Il pontificato bergogliano è al contempo “eccezione”, perché presenta elementi di novità indubbia, e “epilogo” coerente di premesse già poste da tempo: premettiamo subito che voler ignorare questo aspetto è indice di giudizio “emotivo”, non razionale e non sereno.

L’importanza dell’analisi filosofica – tenendo presente che è filosofico il presupposto di ogni discorso teologico! – emerge laddove fatti e dati apparentemente sparsi e scollegati possono e devono essere ricondotti ad un unico filo conduttore, ad un’unica impronta appunto filosofica. Questa analisi filosofica presuppone che fatti e dichiarazioni vengano giudicati oggettivamente, senza pretendere di dare un giudizio su intenzioni e persone ma dovendolo dare, doverosamente, sulle parole.

 

2. La posizione nei confronti della verità

Qual è la nostra attitudine di fronte alla verità? Essa dice molto della nostra attitudine di fronte all’ordine morale, perché il primato della verità significa che essa non è subordinata a nessun fine, a nessuna funzione, a nessuna prassi; essa non è manipolabile dal potere, non è un prodotto relativo.

Andiamo quindi ad esaminare qual è la posizione di Bergoglio di fronte alla verità, e per farlo prendiamo in considerazione la lettera pubblicata da Repubblica l’11 settembre 2013, un’intervista del 31 marzo 2014, l’omelia tenuta ad Istanbul il 29 novembre 2014, e naturalmente l’Evangelii gaudium e Amoris laetitia.

Lettera ad Eugenio Scalfari, ne riportiamo un estratto:

io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive ecc. Ciò […] significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita.

Intervista (parlando con giovani belgi), sempre sul medesimo tema (la verità):

…se tu vai con la tua fede come una bandiera, […] e vai a fare proselitismo, quello non va. La strada migliore è la testimonianza, ma umile: “io sono così” […] La testimonianza: questa è la chiave, questa interpella. Io la do con umiltà, senza fare proselitismo.

Istanbul, si parla di Spirito Santo, che (secondo Francesco)

non riempie tanto la mente di idee, ma incendia il cuore.

Evangelii Gaudium, 232 – 233:

Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento. Bisogna passare dal nominalismo formale all’oggettività armoniosa. Diversamente si manipola la verità… la realtà è superiore all’idea… [il rischio è] una razionalità estranea alla gente.

Amoris Laetitia, passim:

[da evitare una] morale fredda da scrivania… la Parola di Dio non si mostra come una sequenza di tesi astratte, bensì come una compagna di viaggio.

Il linguaggio usato e scelto non è perspicuo, ma evocativo, e fa emergere quello che è il pensiero di Bergoglio: la verità è una relazione, non è il criterio della relazione ma il suo prodotto, è dunque – in senso pieno – relativa. Sia chiaro che tale relazione non va intesa in senso tomista come adaequatio rei et intellectus, ma come relazione vitalistica e pragmatica che deriva da una situazione. Così intesa, la verità non ha un contenuto proprio, non può essere “assoluta”, ossia “valida sempre”, ma con ciò stesso cessa di essere verità (e diventa opinione)!

Per Bergoglio la verità è la vita stessa, nel senso di “cammino”, nel senso di immanenza; la verità diventa così una proiezione, una mera rappresentazione, una situazione, non-“pensabile”, non-“trascendibile“, svuotata di senso. La testimonianza di fede diventa un semplice “io sono così”, senza “rendere ragione” della propria fede, che sembrerebbe attuare una forma di “controllo” dell’altro.

Analogamente, lo Spirito non è “Spirito di verità”, ma si limita a “scaldare il cuore”, prescindendo dall’intelligenza. E’ “novità”, è “fantasia”, però indipendente da un fine, dal giudizio tra bene e male. Le idee vengono viste come dominazioni sulla realtà e non come strumenti conoscitivi di quest’ultima; la relazione dell’idea con la realtà non viene più vista come intrinseca e come criterio veritativo, ma è l’idea a essere giudicata in base agli effetti che produce (e basta), tratta alla stregua di “ideologia”.

Il “nominalismo” è condannato non perché falso, ma perché “non coinvolge”.

“Manipolare la verità” (che da un punto di vista filosofico, con il rigore che il linguaggio filosofico impone, è un concetto senza senso: la verità si può accogliere o respingere, non manipolare) significa in realtà “manipolare l’informazione”, in tal modo equiparando verità e comunicazione. La stessa Rivelazione, vista semplicemente come “compagna di viaggio”, diventa “posizionale”, “sta accanto”, subordinata ad una mèta (decisa dall’accompagnato!) che non si sa bene quale sia. La Parola non illumina un cammino, lo asseconda.

 

3. Il problema del giudizio morale

Se quindi cade l’ordine noetico (verità) può rimanere in piedi quello etico (bene)? Certamente no. Se la verità è inintelligibile, il bene diventa inattingibile. Si vedano in proposito l’intervista a Repubblica e Amoris Laetitia (303):

…questa coscienza [illuminata, formata e accompagnata dal discernimento] può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta chiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo. […] a causa dei condizionamenti e dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio.

Bene e male (tralasciando che il “bene imperfetto” è “male”!) sono concepiti dal soggetto empirico, per cui sono soggettivi e relativi, e non possono né debbono essere perseguiti in quanto tali; bene “reale” e bene “apparente” risultano indistinguibili, anzi il secondo assorbe il primo. L’insegnamento morale, in un simile quadro, è inaccettabile ingerenza e l’individuo viene lasciato con le sue private convinzioni, con le sue rappresentazioni prive di criterio e perciò assolute.

La coscienza diviene “solidale” con la decisione ed entrambe si tramutano in arbitrio, poiché l’unica cosa che conta è, a quanto pare, essere coerenti con se stessi. La bontà delle premesse da cui partono decisioni e azioni non è indagata, essendo meramente soggettiva, quindi irrilevante, e la persona è sempre moralmente giustificata, qualunque cosa faccia. Del resto, non esiste distinzione tra coscienza retta ed erronea, tra ignoranza vincibile ed invincibile, tra coscienza scrupolosa e rilassata, etc. Essa è semplicemente al di là del bene e del male, e potendo prescrivere qualcosa di sbagliato, “crea” il dovere, non lo “indica” al soggetto.

Ma noi sappiamo che la coscienza deve essere razionale, e non può pertanto essere seguita anche quando erra in maniera palese! Insomma, irrazionalità e confusione. Anche perché in AL si parla (con riferimento alla morale familiare) di “proposta generale del Vangelo”, senza distinguere tra precetti e consigli e, soprattutto, dimenticando che la morale coniugale afferisce anzitutto alla legge naturale e, dunque, è obbligatoria per tutti gli esseri umani, non solo per chi conosce il Vangelo.

Ad aumentare le perplessità, la presentazione in AL dell’ordine morale come “ideale”, termine certamente polisenso, che però nell’accezione comune suggerisce non qualcosa di realizzabile e dovuto, ma un traguardo irraggiungibile con le umane forze. Forse anche per questo, in AL la “situazione oggettiva di peccato” è compossibile con uno stato di grazia e con una non-colpevolezza del soggetto. Come, non si sa.

 

4. I presupposti di fondo

E’ nell’Evangelii Gaudium che troviamo formalizzati quattro princìpi a cui, evidentemente, l’azione e il pensiero di Bergoglio si informano: “il tempo è superiore allo spazio”; “l’unità prevale sul conflitto”; “la realtà è più importante dell’idea”; “il tutto è superiore alla parte”.

“Il tempo è superiore allo spazio”. Evangelii Gaudium, 223:

Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici.

Il concetto torna in Amoris Laetitia, 3:

Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali e pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano. […] Inoltre, in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali.

“L’unità prevale sul conflitto”. Evangelii Gaudium, 227-228:

…accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo […] [l’obiettivo è una] risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto.

“La realtà è più importante dell’idea”. Evangelii Gaudium, 231-232:

Questo implica di evitare diverse forme di occultamento della realtà: i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza… L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono.

“Il tutto è superiore alla parte”Evangelii Gaudium, 234-237:

Il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma. Dunque, non si dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi… Allo stesso modo, una persona che conserva la sua personale peculiarità e non nasconde la sua identità, quando si integra cordialmente in una comunità, non si annulla ma riceve sempre nuovi stimoli per il proprio sviluppo.

Più che di princìpi si tratta a ben vedere di presupposti, di punti di vista indimostrati e indimostrabili, che non rimandano a nulla di metafisico, ma sono in esclusiva funzione della prassi, come avviene nelle ideologie: possiamo chiamarlo “trascendentalismo pragmatistico”. Il giudizio di valore, in sintesi, coincide con il risultato stesso dell’azione, non è distinto in alcun modo da esso.

Il primato del tempo sullo spazio – a prescindere da ciò che nel tempo avviene – adombra la teoria, del tutto da dimostrare, per cui il procedere cronologico corrisponda a un miglioramento assiologico; l’azione risulta svuotata di qualità, puntandosi tutto sul “coinvolgimento” e sugli “importanti eventi”, pur che siano. Ma il tempo non è una “teofania”, e neppure lo sono le “novità”: come si può ravvisare la presenza di Dio in una novità cattiva? Dio ne uscirebbe immanentizzato (e il male negato come realtà).

Il primato del tempo comporta anche un primato del divenire, che fa quindi sopravvivere un unico peccato, quello della “fissità”, del “legalismo”, della stasi (dei “muri”, per dirlo in altre parole). Ci si accorda con Hegel nel valutare positivamente il conflitto, come momento necessario del divenire, dell’evoluzione, poiché nel conflitto si confrontano due polarità che sono ritenute comunque preziose al di là di ogni (possibile?) valutazione assiologica.

Con riguardo alle “idee”, anche in questo caso non parliamo di giudizi di valore, fondati su un criterio di verità, ma unicamente su una “validazione operativa”: l’idea è buona in quanto funziona, e “funziona” in quanto “coinvolge”. Ma si può “coinvolgere” qualcuno tanto in un’operazione onesta, quanto in una disonesta!

Nemmeno considerando il primato del “tutto” sulla “parte” troviamo traccia di valutazioni metafisiche: il tutto è molto semplicemente il contesto, nell’ambito del quale le questioni specifiche perdono di importanza e gli atti umani, di per sé sempre individuali e individuabili, si stemperano di fronte ad una visione globalizzante. Le stesse “peculiarità” individuali, cui si fa riferimento nel testo richiamato sopra, possono di per sé essere fisiologiche oppure patologiche, essere pregi oppure difetti; il loro sviluppo, nell’ambito di una “identità” dell’individuo, non necessariamente positiva!, potrebbe anche non essere auspicabile. Così come l'”integrazione” in un contesto negativo non è qualcosa da augurarsi.

 

5. Conclusione

Dai testi offerti alla riflessione dei lettori, al di là delle intenzioni dell’autore, che non vengono qui indagate o giudicate, emerge un approccio incentrato sulla “relazione”, sul “processo”, tratto questo tipicamente postmoderno.